Aeroporto Charles de Gaulle a Parigi.

Lunghe code, gate affollati, la classica frenesia collettiva tipica di una vigilia di vacanze di  massa.

Tra l’altro, le prime dopo l’incubo pandemico.

Mi aggiro tra i negozi, apparentemente duty free, in attesa del volo.

Mi colpisce un distributore automatico, a forma di cilindro. Se premi uno dei tre bottoni in vista, puoi scegliere tre tipi di prodotto (da 1, 3 o 5 minuti).

Quale prodotto?

Un foglio di carta scritto più o meno lungo a seconda della scelta fatta dall’utente, che contiene un racconto o una poesia.

Su questa specie di “scontrino” ti viene offerta la possibilità di una lettura diversa e “antica”: il ritorno alla classica lettura di testi scritti su carta.

Il progetto, denominato Analog Renaissance si pone come obiettivo proprio il farci sospendere per alcuni minuti (quelli prescelti, schiacciando uno dei tre bottoni) la lettura dello smartphone, l’oggetto ormai diventato la protesi irrinunciabile delle nostre mani.

Queste macchinette distributrici di racconti e poesie, stampate su rotoli di carta da leggere in uno spazio di tempo molto limitato, stanno riscuotendo un enorme successo.

Ad esempio, in Francia, dove questi distributori automatici di storie brevi sono già stati installati in più di 200 luoghi pubblici, compreso l’aeroporto parigino.

Anche in America il fenomeno sta esplodendo.

Questa lunga ma suggestiva premessa mi permette di raccontarvi un esempio realmente accaduto che testimonia la forza di impatto delle fake news sulle nostre decisioni, più o meno importanti, che prendiamo in ogni minuto della nostra giornata.

Del rischio clamoroso e devastante di essere diventati degli schiavi delle fake news, a causa della nostra ormai ossessiva presenza nel mondo del web attraverso la continua e forsennata gestione dello smartphone.

Leggete bene questa storia tratta da un libro “Connessi e confusi” (Guerini Editore), scritto da un professore della Bocconi, Danilo Broggi.

Come ci racconta Broggi questa non è una bufala, ma un importante segnale che ci dovrebbe far riflettere sulla nostra ormai consolidata assuefazione e subordinazione rispetto alle presunte verità che girano nella Rete.

Il titolo dell’episodio riportato da Broggi è “Il capanno di Dulwich” (The shed of Dulwich). Racconta come questo ristorante londinese sia diventato il numero 1 nella classifica di Tripadvisor.

L’abilità del promotore è stata quella di scatenare nel pubblico la voglia di provare questo ristorante.

Moltissimi hanno cercato di prenotare un tavolo, senza mai riuscirci, perché la risposta era sempre la stessa “Sorry, but we are full” (scusate, ma siamo pieni).

L’ideatore di questo test sulla contaminazione delle notizie che circolano nel web sulle nostre scelte di acquisto, è uno scrittore professionale.

Si chiama Oobah Butler: si è inventato una straordinaria “bufala”.

Ha voluto dimostrare, attraverso questa sperimentazione, come il modesto capanno della sua casa nel nord di Londra potesse trasformarsi nel ristorante più ricercato della capitale inglese: il tutto gestendo, inventando e diffondendo “soltanto” post e like.

Butler nel gennaio di quest’anno ha deciso di porre fine al test e ha pubblicato sul sito del ristorante un video che svelava lo scherzo.

Ha registrato più di 33 milioni di visualizzazioni!

Al di là di dimostrare quanto siamo tutti contaminati e spesso schiavi delle notizie che circolano nella Rete, Butler è andato oltre e ha voluto anche sottolineare un altro aspetto di questa nostra nuova schiavitù psicologica di questo terzo millennio: non siamo solo creduloni, ma anche contaminati nel giudizio di merito che esprimiamo sui prodotti o servizi apparentemente veri che ci vengono consigliati.

Butler infatti dopo aver fatto diventare il suo ristorante “virtuale” il più importante e desiderato di Londra, una sera ha deciso di fare un esperimento in più: ha accettato alcune prenotazioni e ha preparato una cenetta con zuppe preconfezionate, alimenti comprati al supermercato e riscaldati nel forno a microonde.

La stragrande maggioranza dei “pochi e fortunati” clienti che avevano potuto sperimentare “finalmente”, a casa loro, una cena del Capanno di Dulwich, ha poi postato valutazioni positive e dato voti altissimi allo chef Oobah Butler.

Come ci spiega Danilo Broggi nel suo libro citato, le fake news non solo ci fanno credere a certe verità in realtà fasulle (in questo caso l’esistenza di un ristorante … inesistente!), ma addirittura in quel mondo di menzogne, ci fanno perdere ogni capacità distintiva tra il buono e il “taroccato” anche, come nel caso della cena “tra i pochi fortunati” è capitato a Butler cucinando dei cibi assolutamente banali e ordinari e venendo poi definito uno straordinario Magic Chef dai suoi utenti.

E’ vero che le fake news ci sono sempre state nella storia dell’umanità fin dai tempi degli antichi greci, ma la delicatezza della tematica oggi è che il web, con i suoi social network, i blog e gli influencer ha moltiplicato in maniera esponenziale la contaminazione dell’informazione rispetto alla costruzione dei nostri convincimenti.

Oggi, l’esempio del Capanno di Dulwich ci dimostra che una ondata di informazioni fasulle lanciate nella Rete è in grado di trasformare il falso in una verità, con l’utenza, noi, che non solo abbocca, ma addirittura si fa suggestionare nei suoi giudizi post “prova prodotto” scrivendo post entusiasti del servizio ricevuto.

Stiamo vivendo, in Italia, la nostra prima campagna elettorale estiva: mi piacerebbe che questo esempio del talentuoso Butler, ci servisse per crearci dei filtri psicologici adeguati al bombardamento di fake news che ci piomberà addosso nei prossimi giorni per condizionare le nostre scelte di voto.

Recenti studi citati nel libro di Broggi si sono occupati dell’impatto del fenomeno delle fake news sulle scelte degli elettori americani, ad esempio, nelle loro elezioni presidenziali. Il National Bureau Economic Research sottolinea l’importanza di istituire dei veri e propri certificatori della verità sui contenuti di certe notizie, chiedendosi però anche, nel contempo, se sia possibile immaginare di avere una specie di “arbitro della verità”.

Un documento prodotto dalla Yale University dimostra come la possibilità di “flaggare” da parte degli utenti, abbia avuto un qualche effetto positivo ma ancora lontano da rendere innocua una fake news “sapientemente e professionalmente strutturata”.

Gli psicologi dell’università di Rochester hanno scoperto e pubblicato nel loro ultimo report, “Personality and Social Psicology Bullettin”, che le persone sole, senza smartphone per almeno 15 minuti nell’arco di un’ora, hanno incominciato a scegliere dove rivolgere i loro pensieri senza la tamburellante contaminazione dei social network.

Il campione degli intervistati ha detto di sentirsi più calmo, meno arrabbiato o ansioso, con una riduzione dei sentimenti di solitudine o di tristezza.

In conclusione, ritornando alle macchinette con gli scontrini di racconti o di poesie scritte sulla carta, forse dovremmo davvero fermarci e riflettere.

Leggere di più i vecchi libri cartacei e spegnere 15 minuti ogni ora il nostro smartphone potrebbe davvero rappresentare il miglior farmaco contro la schiavitù da fake news.

Un rimedio dunque antico che dovrebbe aiutare il nostro cervello a riacquistare la sua centralità di pensiero per le nostre decisioni di vita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.