Tutte le volte che usiamo internet, digitiamo qualcosa sul nostro smartphone o apriamo un’app accettiamo, con gradi di consapevolezza variabili, lunghissimi termini e condizioni. Ma siamo sicuri di sapere con esattezza cosa stiamo accettando?

Parlando di “termini di servizio”, “condizioni generali”, o “termini e condizioni” si parla, di fatto, di un contratto in cui il provider chiarisce quali siano le condizioni di utilizzo del proprio servizio.

Sembra però che le compagnie si impegnino quasi a rendere illeggibili, invece che comprensibili, i “Terms and Conditions” che vengono sottoposti agli utenti: un carattere tanto piccolo da richiedere uno zoom esagerato solo per essere letto, oppure un documento infinito scritto interamente in maiuscolo cosicché il testo perda la sua composizione di parole e spazi, per risultare più simile ad una macchia sullo schermo. La pigrizia e l’abitudine dell’utente fanno il resto, e si finisce sempre per accettare ad “occhi chiusi”.

Un caso emblematico è stato quello del “pesce d’Aprile” messo in atto dal marketplace di giochi inglese GameStation: nel giorno dedicato agli scherzi, infatti, è stata inserita una piccola clausola nei loro termini e condizioni in forza della quale gli utenti avrebbero consegnato al provider del servizio la loro “anima immortale”: 7.500 utenti sono caduti nella rete e nonostante il giorno dopo la dicitura fosse stata rimossa, l’episodio ha fatto riflettere su quanto le compagnie possano inserire ciò che vogliono nelle loro condizioni di servizio, con una buona dose di certezza che verranno quasi sempre ignorate.

Occorre però tenere a mente che alla “libera” prassi dei fornitori dei servizi online nel redigere i propri “Termini e Condizioni” si contrappone la tutela esistente in materia nell’ordinamento giuridico, che spesso ridimensiona grandemente la portata della vessatorietà delle clausole in discussione.

Ovviamente ciò che il sentimento comune più ricerca su internet (e non solo) è il massimo risultato con il minimo sforzo. Tutti cercano qualcosa di gratuito e per ottenerlo sono disposti a concedere le proprie informazioni personali, reputandolo nella maggior parte dei casi un disvalore accettabile. Oltre alle informazioni, che smuovono un business ormai in espansione incontrollata, anche il comportamento online viene registrato sui server dei provider dei servizi stessi, ma c’è da chiedersi: qual è il parametro di certezza che ci consente di escludere che le informazioni non verranno utilizzate per scopi diversi da quelli inizialmente previsti?

In Olanda qualche anno fa abbiamo assistito a ciò che può succedere quando si consegnano dei dati ad una compagnia che poi li cede a terzi: Tom Tom, nota azienda nel campo dei navigatori satellitari, ha venduto le informazioni ottenute dai dispositivi di geolocalizzazione dei propri clienti alla polizia olandese che le ha poi sfruttate per posizionare gli autovelox, esattamente dove i dati avevano evidenziato sistematiche violazioni dei limiti. Risultato, numerosissime multe per eccesso di velocità.

I dispositivi mobili, poi, stanno diventando sempre più capaci di immagazzinare informazioni e in particolare l’iPhone, che ha da poco festeggiato dieci anni, si distingue tra gli altri per essere un vero e proprio magazzino digitale. E come ammesso da Larry Page – co-fondatore di Google – “ci sentiamo nudi senza telefonino”, sottolineando l’irrinunciabilità di uno strumento intelligente che ormai fa molto più che parte della nostra quotidianità. Tuttavia, l’intimità con il proprio rettangolo luminoso si è presto rivelata un’arma a doppio taglio dal momento che è stata proprio la ragione per cui negli ultimi anni si sono verificati sempre più casi di attacchi hackeraggio e furti di dati e informazioni personali. Una delle piaghe più dannose in materia è lo spyware, che si infiltra in maniera fraudolenta nei dispositivi personali delle vittime, provvedendo a copiare ed inviare dati personali (pagine visitate, account di posta, preferenze commerciali ecc.) a monopolisti dei dati che rielaborandoli e rivendendoli otterranno smisurati guadagni.

La rivoluzione digitale che stiamo attraversando sta assistendo in maniera sempre più pressante al perfezionamento di algoritmi capaci di elaborare milioni di dati provenienti dalle fonti più disparate e di sviluppare poi, nel migliore dei casi, campagne pubblicitarie e di marketing sempre più mirate ed aggressive. I nostri dati personali rappresenterebbero dunque il “nuovo petrolio” per compagnie che vedono una buona fetta del loro bilancio rimpinguata dai guadagni ottenuti attraverso la valanga di informazioni raccolte su un numero indefinito di utenti.

Si può dire che sia in corso una vera e propria battaglia tra l’Unione europea (che mira ad assegnare maggiori poteri di controllo alle autorità anti-trust nazionali) ed i giganti del web, alla ricerca di un equilibrio che difficilmente potrà essere raggiunto con il solo strumento normativo, anche alla luce del carattere transfrontaliero del fenomeno.

Si potrebbe avanzare l’ipotesi che ormai, invece che di diritto alla privacy, si possa parlare di una vera e propria negoziazione collettiva, un do ut des tra la titolarità dei dati personali e la prestazione di servizi gratuiti, anche se quelli a rimetterci (e non poco), nonostante nell’immediato magari non sia evidente, sono proprio gli utenti che finiscono col perdere il controllo delle proprie informazioni personali, esponendosi a rischi per quanto riguarda la sicurezza informatica e cedendo gratuitamente informazioni che unitariamente possono apparire inconsistenti, ma in via aggregata hanno un valore economico di tutto rilievo.

 

Pierluigi Tusino

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