1-1: palla al centro, si direbbe in termini calcistici.

In anticipo rispetto alla prima tappa delle primarie (Caucus nello Iowa il 15 gennaio 2024) i giudici americani hanno iniziato a mettere i primi paletti legali a quella che si preannuncia più che una battaglia politica, una battaglia giudiziaria.

Per capire cosa stia succedendo in America in questo fine 2023 partiamo da un presupposto fondamentale: ricordiamoci che gli Stati Uniti sono uno Stato Federale dove ogni Stato ha una sua legislazione e una sua giurisdizione, salvo poi concentrare nella Corte Suprema Federale di Washington il verdetto definitivo sulle questioni giuridiche sollevate dai cittadini.

Alla fine di questo dicembre 2023, la situazione è la seguente: la Corte Suprema del Colorado prima (messa al bando dell’ex Presidente Donald Trump dello Stato in programma con altri 14 Stati nel Super Martedì del 5 marzo 2024) e la Corte Suprema degli Stati Uniti poi (respinta l’istanza del Procuratore Speciale Jack Smith di valutare subito e in via accelerata se l’ex Presidente Trump possa o meno godere della immunità presidenziale per il prospettato reato di partecipazione al tentativo di ribaltamento illecito del risultato elettorale del 2020) hanno segnato un punto a favore e un punto a sfavore del partito di Trump.

La sentenza del Colorado e gli altri procedimenti pendenti a carico di Trump

A fronte dell’istanza formulata da Jack Smith di accelerare i tempi della decisione sulla idoneità o meno di Trump a candidarsi alle prossime elezioni, i giudici togati hanno respinto la richiesta non ritenendo fondata la domanda.

Trump aveva invocato l’immunità presidenziale con una tesi basata su due argomenti: (i) ha sostenuto che quando effettuò i ricorsi sui risultati elettorali del 2020 aveva agito nel perimetro delle sue funzioni ufficiali; (ii) inoltre, ha affermato di non poter essere processato due volte per lo stesso reato riferendosi al fatto che nel febbraio 2021 era stato assolto al Senato di Washington durante il processo di impeachment che lo vedeva accusato di “incitamento all’insurrezione”.

Da parte sua il Procuratore Speciale Smith aveva citato, nella sua istanza, un famoso precedente, quello che aveva riguardato Richard Nixon, nel 1974, quando dovette consegnare i famosi nastri del Watergate.

Smith puntava ad accelerare i tempi affinché i vari ricorsi di Trump non mettessero a rischio l’avvio del processo che dovrebbe proprio cominciare il prossimo 4 marzo e cioè proprio il giorno prima del Super Martedì elettorale.

Adesso, dopo il rigetto della Corte Suprema, la questione dell’immunità dovrà essere affrontata dalla Corte d’Appello di Washington con la concreta ipotesi che i tempi si allunghino e che l’inizio del processo slitti a data da destinarsi, esattamente come auspicato da Trump.

Nel verdetto della Corte Suprema risiede anche una vittoria in termini di immagine per l’ex Presidente perché avvalora, nella sostanza, la sua tesi sulla pretestuosità della richiesta di Smith e quindi dell’esistenza di un complotto da parte dei magistrati eletti dai democratici ai suoi danni.

Per ora, quindi, la situazione su questo fronte è di stallo: non dobbiamo dimenticarci che nel merito la questione è aperta in quanto la Corte Suprema non si è pronunciata sulla questione dell’immunità presidenziale.

In Colorado, invece, la Corte Suprema di quello Stato, sul presupposto che l’ex Presidente abbia sostenuto i rivoltosi nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, gli ha inibito la partecipazione alle elezioni primarie.

La Corte ha richiamato il 14° Emendamento della Costituzione americana che, alla sezione 3, recita: “Nessuno potrà ricoprire alcuna carica, civile o militare – avendo precedentemente prestato giuramento per sostenere la Costituzione degli Stati Uniti se si sarà impegnato in una insurrezione o ribellione contro la stessa, o dato aiuto o conforto ai suoi nemici”.

IL 14° Emendamento risale al periodo immediatamente successivo alla conclusione della Guerra Civile.

E’ stato ratificato nel 1868 proprio per impedire l’ascesa al potere di chi l’avesse promossa o sostenuta.

Insomma, la maggioranza del Congresso introdusse questa specifica norma per evitare che i sudisti potessero ricoprire cariche pubbliche e istituzionali.

Ovviamente Trump ha impugnato il provvedimento della Suprema Corte del Colorado, alla Suprema Corte federale di Washington dove può contare sulla maggioranza di 6 a 3 tra i 9 giudici che esprimeranno il verdetto finale.

Se la Corte Suprema dovesse bocciare il ricorso di Trump, il prossimo 4 marzo partirà il processo sui fatti del 6 gennaio 2021.

L’ex Presidente, al di là di questi due procedimenti ha in corso ben quattro processi: (i) quello sulla Trump Organization che ha risvolti civili e l’obiettivo di fargli chiudere ogni attività e ogni affare nello Stato di New York a causa di illeciti anche di natura fiscale commessi nei passati esercizi; (ii) c’è il procedimento in Georgia per i brogli elettorali; (iii) e ci sono poi due procedimenti federali a Washington e a Miami con le gravissime incriminazione per divulgazione di segreti nazionali e spionaggio.

Trump spera e sta lottando in tutti questi tribunali perché i dibattimenti inizino a elezioni concluse (quindi dopo il novembre 2024) oppure quando la campagna elettorale sia ormai in pieno svolgimento.

L’ex Presidente sta valorizzando questo assedio giudiziario assumendo il ruolo della vittima contro quel Deep Power che lo vuole estromettere dalla politica nazionale un ruolo che gli sta portando un’enormità di consensi.

La dichiarazione di Biden

Preso atto delle difficoltà giudiziarie del suo competitor, il Presidente Biden proprio in questi giorni, ha aperto ad un’ipotesi suggestiva: “Se Trump non corresse – ha detto Biden, forse pentendosene subito – non sono sicuro che correrei anche io”.

La conclusione è abbastanza semplice: se Trump si ritira o fosse costretto a ritirarsi, potrei ritirarmi anche io.

Questo scenario darebbe una grande soddisfazione a quei molti americani che vedono con preoccupazione una competizione presidenziale tra due ottantenni pesantemente condizionati dall’anagrafe e da una serie di problemi di natura famigliare o giudiziaria.

Mario Platero ha ipotizzato che in tal caso lo scontro finale a novembre potrebbe essere tra due donne cinquantenni: l’ex governatrice della Carolina del Sud Nikki Haley per i Repubblicani e l’attuale governatrice del Michingan Gretchen Withmer per i Democratici.

Oggi la Haley negli ultimi sondaggi effettuati proprio nello Iowa ha circa il 35% di voti in meno di Donald Trump: insomma se non ci saranno impedimenti giudiziari è inimmaginabile pensare che Trump non vinca a mani basse le primarie del partito repubblicano.

Il programma dell’ex Presidente

Per alcuni, senza vergogna, Trump ha voluto sintetizzare pubblicamente quello che sarebbe stato il suo piano in caso di vittoria alle presidenziali.

1.Nominerebbe 4000 fedelissimi in tutti i 4000 posti più importanti del governo e delle agenzie federali.

2.Licenzierebbe immediatamente i 50.000 funzionari pubblici con incarichi amministrativi di rilievo sostituendoli con dirigenti fedeli al programma America First.

Su questo aspetto sta lavorando alacremente il think tank della destra radicale repubblicana Heritage Foundation che sta selezionando decine di migliaia di professionisti che garantiscano l’assoluta fedeltà a Trump.

3.Terzo aspetto del programma, la “militarizzazione” del Ministero della Giustizia chiamato ad eseguire “le vendette” contro i repubblicani che lo hanno tradito o contro i democratici che stanno complottando contro di lui, a partire proprio da Joe Biden.

4.“Ciliegina sulla torta” il punto relativo all’utilizzo dell’esercito contro le prevedibili manifestazioni di piazza causate dalle precedenti decisioni. Trump invocherebbe l’Insurrection Act del 1807 per giustificare lo scavalcamento della legge in base alla quale i soldati difendono l’America soltanto dalle minacce esterne.

5.Gran finale con l’inizio della cacciata di tutti quei migranti senza documenti da deportare in massa fuori dai confini americani.

Trump e la guerra in Ucraina

E’ facile immaginare che, una volta eletto, l’ex Presidente chiuda immediatamente i rubinetti dei finanziamenti a Kiev e abbandoni ogni collaborazione con la Nato, riprendendo la relazione personale con Putin per trovare un accordo.

A questo proposito, è interessante citare come due fondamenti della campagna che sta portando avanti Donald Trump siano assolutamente basati su bugie, belle e buone: perché  l’America dovrebbe finanziare la salvezza dell’Ucraina che si trova in Europa? Non sarebbe meglio investire quei soldi nella crescita dell’America invece di regalarli a Zelensky?

Ebbene, proprio Nikki Haley ha avuto il coraggio di ricordare a Trump la verità ben diversa rispetto ai suoi proclami.

Innanzitutto gli europei hanno dato agli ucraini quasi il doppio dei soldi degli americani: meno armamenti ma molti più Euro. Inoltre, come dimostra una ricerca di un think tank repubblicano, l’American Enterprise Institute circa il 90% dei fondi stanziati dal congresso americano per l’Ucraina non ha mai … lasciato gli Usa.

Ben 60 miliardi di dollari sui 68 erogati, sono stati spesi infatti per comprare armi americane e poi mandarle in Ucraina.

Una riflessione finale

La nostra personale frequentazione con il mondo americano newyorkese evidenzia un rischio concreto di una vittoria finale di King Trump.

Come ha scritto Beppe Severgnini “L’uomo è incattivito e dichiara esplicitamente i propri intenti vendicativi. L’idea che il paese più ricco, potente ed innovativo del mondo rischi una svolta totalitaria è sconvolgente”.

La storia delle elezioni presidenziali americane ci ha però dimostrato che spesso i verdetti finali li ha determinati più che la politica l’andamento dell’economia: in un paese che cresce, che crea ricchezza, che soddisfa i cittadini, ha sempre vinto un candidato non populista e non demagogico.

In un contesto di crisi economica, invece, hanno prevalso le sirene sovraniste segnate dal malessere di una classe media che si è vista e si vede ridurre il suo reale potere di acquisto nell’economia quotidiana.

Mancano circa 11 mesi all’appuntamento e saranno 11  mesi “caldi” non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo.

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