Forse lo avete notato. Forse no. In un momento di scelte politiche fondamentali per il nostro bizzarro Paese, quando il confronto e il dibattito tra i partiti emersi dalla prova elettorale si concentra su alleanze, programmi, affinità o differenze, nessuno, lo ripetiamo nessuno, inserisce nell’agenda dei temi da discutere un settore chiave della nostra economia: il turismo associato al nostro patrimonio culturale e artistico. Il focus è su altro, non su questo asset intangibile per cui siamo famosi nel mondo. Una incredibile sottostima di un patrimonio che continua, nonostante la disattenzione generale, a produrre risultati positivi. E che risultati!

Proprio nell’ultimo week end appena trascorso, nell’annuale convegno organizzato dalla ConfCommercio a Cernobbio, nella splendida cornice del Lago di Como, sono stati presentati i dati 2017 del turismo in Italia e dei flussi degli stranieri che hanno visitato il nostro Paese.

Tra il 2007 (anno dell’inizio della crisi) e il 2017 il valore aggiunto del settore turistico è cresciuto del 6.8% generando 3.5 miliardi di euro di ricchezza in più. Un vero record! In 10 anni il turismo ha incrementato le occasioni di occupazione del 19.8%: 261 mila posti di lavoro in più. Nel decennio gli stranieri hanno speso in Italia 361.5 miliardi di euro. Alla fine il saldo (a fronte della spesa degli italiani all’estero) è stato positivo per 128 miliardi. Per darvi un’idea comparata rispetto ad altri settori, l’abbigliamento ha generato un saldo attivo di 95 miliardi di euro, il food un saldo negativo di 81 miliardi.  I visitatori stranieri sono cresciuti del 5.2%.

Insomma nonostante gli ultimi anni siano stati caratterizzati dalla crisi economica e dal rischio degli attentati terroristici, il Bel Paese ha continuato ad attrarre turisti stranieri consolidando la sua posizione di “dream destination” molto apprezzata.

Pickett, alla luce di tale fotografia, torna su un tema già sviluppato diverse volte su questo blog. Un tema apparentemente chiaro e risolvibile ma, nella realtà, spinoso e “fermo”: la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano in chiave di offerta agli stranieri innamorati del nostro Paese.

Ripartiamo dall’inizio del ragionamento: la Costituzione italiana è molto precisa sul punto. Il tema ha infatti rilevanza e dignità costituzionale. L’articolo 9 della Carta recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Di quale patrimonio stiamo parlando?

L’Italia possiede un patrimonio culturale e ambientale unico al mondo. Sono 47 i siti che rientrano nella lista Unesco dei Patrimoni Mondiali dell’Umanità. Soltanto la Cina ci precede con 51 siti Unesco. L’insieme dei 47 siti italiani certificati dall’Unesco rappresenta un ampio e significativo repertorio delle tante eccellenze nel settore dell’architettura, della pittura, dell’urbanistica e del paesaggio italiano. Ma i siti Unesco rappresentano soltanto la punta di un iceberg virtuoso, variegato e poco conosciuto.

In Italia ci sono oltre 4000 musei, 6000 aree archeologiche, 85000 chiese soggette a tutela, 40000 dimore storiche censite. L’Italia è anche “arte a cielo aperto” con le sue coste, le sue riserve e paesaggi naturali.

Ogni 100 Km2 in Italia si contano mediamente oltre 33 beni censiti – ci ricorda il FAI (Fondo Ambientale Italiano) che proprio lo scorso week end è stato il protagonista della tradizionale giornata dedicata alla visita, aperta al pubblico, delle dimore storiche.

Il 18% del territorio italiano  – più di 55.000 Km2 – è soggetto ad attività di tutela da parte dello Stato. Questi sono solo alcuni dei numeri che descrivono l’importanza e la grandezza del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, proprio quel patrimonio oggetto della rilevanza costituzionale di cui al richiamato art. 9 della Carta.

Ma quanto vale questo patrimonio che tutti ci invidiano?

La Corte dei Conti, secondo uno studio del 2016, reagendo ad un’ennesima operazione delle agenzie di rating internazionale che avevano declassato il nostro Paese, ha provato a dare una stima del valore di questo nostro straordinario asset intangibile. Secondo i dati del bilancio del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato al 31.12.2016 il patrimonio italiano aveva un valore di almeno 986 miliardi di euro tra attività finanziarie e non finanziarie. Le opere d’arte classificate come beni mobili di valore culturale, biblioteche e archivi (beni storici, beni artistici, beni demo-etno-antropologici, beni archeologici, beni paleontologici, beni librari, beni archivistici) valgono 174 miliardi di euro (il 10.4% del nostro PIL).

A fronte di questo incredibile patrimonio, ci sono però dei problemi rilevanti proprio in tema di conservazione e manutenzione. L’Italia è al penultimo posto (dietro la Grecia) per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura. A fronte di una media europea pari al 2.1% la nostra quota è pari all’1.4%.

Siamo praticamente dei miliardari che non sanno sfruttare il loro patrimonio: il ritorno economico degli asset culturali – ci ricorda una ricerca della PriceWaterHouse – della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte più grande di quello italiano.

La fotografia che vi abbiamo socializzato è quanto mai eloquente, se vivessimo in un “Paese Normale”, per concentrarci sul tema e porlo tra le priorità dell’agenda del futuro governo in materia di politica industriale. Perché si tratta proprio di una scelta strategica di politica industriale: la valorizzazione del patrimonio culturale costituisce una leva per alimentare, consolidare ed implementare i ricavi provenienti dai flussi turistici nazionali ed internazionali, con tutte le ricadute in termini economici, occupazionali e sociali.

Il problema è che l’Italia non ha una cultura del turismo – scriveva proprio nei giorni scorsi sul Corriere della Sera Aldo Cazzullo rispondendo ad una lettera di un lettore che paragonava la politica del Marocco in materia di sviluppo turistico con quella dell’Italia – ci sono alcune eccellenze ma sono dei microcosmi: la Val Badia, la Riviera romagnola, la Costiera Amalfitana, Capri, il Salento, le Eolie. Eccezioni che confermano la regola”.

Secondo Cazzullo la crisi dell’Alitalia non ha certo aiutato l’implementazione di questo deficit. Anzi! Inoltre la carenza di un grande gruppo alberghiero italiano è un altro elemento di criticità del sistema: “Eppure i turisti – continua Cazzullo – arrivano lo stesso anche se meno che in Spagna e in Francia. Perché l’Italia è meravigliosa ed è più sicura di altri paesi.  Ma il metodo con cui vengono accolti resta il mordi e fuggi anziché l’accoglienza che investe sul futuro”.

Viviamo una sottostima dell’industria turistica, una visione riduttiva: “Come se fosse solo questione di alberghi e ristoranti – chiosa Cazzullo”. Il turismo non ha solo bisogno di cuochi e camerieri ma di infrastrutture, restauri, investimenti in cultura: “Quindi di ingegneri, architetti, artigiani, artisti, storici dell’arte. Il turismo dovrebbe alimentare l’industria dello spettacolo. Ma non è così … Ovviamente i professori non vogliono spettacoli al Colosseo. “Così diventa un’arena” dicono. Ma il Colosseo è un’arena. L’Italia è unica proprio perché i monumenti dell’antichità non sono morti, come le piramidi: sono vivi, come il Pantheon; abitano la città, ci appartengono. Non vanno sfruttati ma valorizzati”.

La recentissima giornata del FAI ha riportato sulle prime pagine dei giornali questo annoso tema. Un tema molto caro a Pickett: la sfida sulla valorizzazione moderna e virtuosa del nostro patrimonio artistico e culturale. Senza con questo voler contaminare negativamente una seria e avveduta politica di conservazione del patrimonio stesso che però deve essere finanziata proprio con i proventi derivanti dalla sua valorizzazione.

Chissà che prima o poi qualche “politico” di vecchio o di nuovo corso se ne accorga e ci metta “la faccia”.

 

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