L’Onu va dunque riformato prima che sia troppo tardi: che si svuoti completamente di autorevolezza e del ruolo di garante della pace  mondiale.

Lo ha gridato, anche dallo scranno del Palazzo di Vetro, il Segretario Generale Gutierrez, al termine dei lavori assembleari a New York: “Riforma o rottura” ha detto Gutierrez sottolineando la necessità di modernizzare il multilateralismo per affrontare le delicatissime questioni contemporanee: “Il mondo è cambiato – ha detto – le nostre istituzioni no. E’ giunto il momento di rinnovare le istituzioni multilaterali basate sulle realtà economiche e politiche del XXI secolo”.

E’ un discorso questo che vale per l’Onu ma anche per la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il G7 e il G20.

Le grandi sfide che attendono l’umanità sul cambiamento climatico, le pandemie ripetitive, le migrazioni necessitano di una nuova governance mondiale che rispecchi gli attuali e nuovi equilibri.

Proviamo allora a rivisitare lo stato dell’arte di queste grandi istituzioni internazionali, scosse dai nuovi potenti del mondo che pensano di sostituirle.

Ormai le sigle corrispondenti alle varie e a volte nuove organizzazioni mondiali sono innumerevoli.

Si è creata una proliferazione tale da spiazzare anche gli addetti ai lavori: G7, G20, Brics, OCS, Nato, CSTO, Quad.

Proprio a metà dello scorso settembre si è svolta a L’Avana la prima conferenza del nuovo G77, un summit di 134 paesi che rivendicano “un nuovo ordine mondiale”.

Vediamo dunque qual è il ruolo e la situazione delle principali sigle dell’attuale multilateralismo internazionale.

Il G7

E’ il club delle vecchie potenze che hanno dominato il mondo nell’ultimo secolo e che hanno il comune interesse di perpetrare l’attuale situazione il più a lungo possibile di fronte alle istanze dei nuovi potenti.

Il G7 nacque a seguito della crisi petrolifera del 1973 con la recessione dell’anno successivo.

Iniziò la sua attività come “Gruppo informale di discussione” per migliorare la concertazione dei Grandi in caso di crisi internazionali.

Una struttura snella che rispondeva alla necessità di un dialogo maggiore fra i potenti nei momenti di emergenze internazionali.

Il G7 è poi aumentato di importanza con il tempo: nel 1975, al suo battesimo, pesava però i 9/10 del totale della ricchezza mondiale; 25 anni dopo, nel 2000, 4/5: oggi pesa meno di 2/3 con un evidente declino anno dopo anno.

Al suo  interno i pesi economici dei vari stati sono cambiati evidenziando a volte contrasti difficilmente sanabili con gli ecumenici comunicati stampa alla chiusura di ogni summit.

Il G7 ha rappresentato, con un termine tecnicamente e giuridicamente improprio, l’Occidente o, per i contestatori, il “Nord globale”.

Come giustamente ha fatto notare Manlio Graziano su La Lettura “L’interesse che tiene uniti i paesi del G7 è comunque molto più forte dell’interesse che tiene uniti i paesi del “Sud globale”, sia nella versione dei Brics, sia del OCS (Organizzazione per la Cooperazione di Shangai)”.

Secondo Graziano tutte le organizzazioni dei paesi emergenti, nate per arginare e/o soppiantare lo strapotere dei membri del G7, puntano a poter esprimere la propria opinione e i propri obiettivi in un nuovo mondo con delle nuove geo-mappe.

L’allargamento dunque del G7 o la modifica della sua governance, come abbiamo già scritto su questa testata, sono all’ordine del giorno dell’organizzazione con gli americani che stanno mettendo a punto un intenso e rivoluzionario programma di modernizzazione della struttura del G7.

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS)

Questa organizzazione è stata fondata nel 2001 da due ex rivali come la Cina e come la Russia, con il fine proprio di aprire un tavolo permanente per evitare lo scoppio di altri conflitti tra le due potenze per il controllo delle regioni dell’Asia centrale.

Furono subito cooptate proprio le cinque repubbliche, di quel territorio, che nel 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino, uscirono dall’Urss (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan).

Successivamente l’OCS fu allargato ai due paesi che in quella delicata regione Asia centrale detenevano l’armamento atomico: l’India e il Pakistan.

Nel luglio di quest’anno è stato ammesso, con una scelta ovviamente provocatoria, anche l’Iran.

I Brics

I Brics furono costituiti nel 2009 come successori del modello dell’organizzazione denominata “Stati non allineati”.  Gli originari Bric (Brasile, Russia, India e Cina) divennero, l’anno successivo, i Brics con l’ingresso del Sudafrica.

Anche in questo caso l’organizzazione nacque per condividere un tavolo comune di consultazione e confronto sulle politiche internazionali di questi paesi, con strategie opposte e configgenti con quelle del G7.

I Brics, dopo alcuni anni di silenzio, sono tornati alla ribalta con la guerra in Ucraina quando Mosca, con Pechino, uno dei due leader principali dell’Organizzazione, aveva tutto l’interesse a coagulare un fronte antioccidentale.

Al di là della Cina e della Russia, una gran parte dei membri dei Brics ha avviato una politica mirata ad alzare la posta in gioco nella futura ripartizione del mondo tra gli “amici” degli Stati Uniti e gli “amici” della Cina.

Sia l’India, soprattutto, sia il Brasile, sia anche il Sudafrica hanno avviato confronti, apparentemente aperti e disponibili, sia con le cancellerie cinesi sia con quelle americane, negoziando con il migliore offerente il ruolo del paese o nei Brics o nel nuovo G7.

Proprio questa estate i Brics hanno allargato il numero dei partecipanti all’organizzazione, ammettendo l’ingresso dell’Argentina, dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, degli Emirati Arabi, dell’Etiopia e, come dicevamo, dell’Iran.

Il futuro di questa associazione internazionale dipenderà molto da quanto Washington riuscirà a “mettere le gambe” a politiche internazionali inclusive degli interessi di molti di questi paesi… l’India prima di tutti.

Proprio il Primo Ministro indiano Narendra Modi è il benchmark delle condotte ondivaghe di questi stati: l’India partecipa contemporaneamente al Quad con Stati Uniti, Giappone e Australia con tanto di esercitazioni militari periodiche, nato proprio con lo scopo di arginare lo strapotere cinese. Nonostante tale partecipazione, come abbiamo detto, è uno dei paesi guida dei Brics.

G20

Fu creato nel 1999 per offrire un’opportunità ai paesi emergenti di dire la loro, non potendo far parte del G7.

Il G20 nacque sotto l’egida del ’”Washington Consensus” cioè un sistema di regole dettate da tre organismi internazionali con sede appunto nella capitale americana: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Dipartimento del tesoro americano.

Il G20 oggi costituisce un’altra opportunità “fisica”, anche se in declino di ruolo e di autorevolezza, dove i vecchi potenti e i nuovi potenti possono confrontarsi negoziando la loro posizione in vista del riassetto delle geo-mappe internazionali destinate con ogni probabilità a ricreare un bipolarismo con Stati Uniti da una parte e Cina dall’altra.

Gli equilibri mondiali sono in corso di ridefinizione: molti osservatori considerano tramontata l’idea di una governance mondiale regolata ancora dal Washington Consensus.

Una lampante prova di ciò è stata data a New Delhi, durante l’ultimo G20 nel settembre scorso, quando il comunicato stampa finale ha evitato ogni frase di condanna nei confronti della Russia per l’invasione in Ucraina.

Tale reticenza ha evidenziato proprio l’incertezza che esiste ed è sempre più forte a livello delle relazioni internazionali.

Abbiamo detto che l’India sta mantenendo una politica “delle doppie scarpe”, trattando con tutti e mantenendo delle buone relazioni sia con Pechino sia con Washington; il Brasile si è detto pronto ad ospitare Putin al prossimo vertice del G7: tutti segnali, come dicevamo, che i giochi sono aperti e ciascuno specula sui media per aumentare la sua forza negoziale.

Come la storia ci insegna, le crisi introducono normalmente un nuovo ordine dopo una fase di disordine.

Oggi viviamo un disordine che cerca un suo nuovo equilibrio ordinato all’interno della dialettica tra il Washington Consensus e il nuovo Beijing Consensus.

Il peso decisivo sarà dato, a nostro avviso, dalle scelte finali dell’India di Modi, mai così tanto corteggiata sulla scena internazionale come in questi mesi.

E l’Italia?

Come potrà valorizzare il suo ruolo in questo “disordine creativo”?

Dopo aver abbandonato la strategia della “Via della Seta” quale sarà la strategia del nostro Paese?

Cercheremo di analizzarlo nella prossima puntata del Grande Gioco: “La strategia di Giorgia Meloni nel nuovo mondo… che verrà”

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