Tre parole!

Tre vocaboli che hanno segnato la storia del mondo e soprattutto del 900.

Non sempre in modo pacifico e virtuoso, anzi!

Il principio dell’autodeterminazione dei popoli”: il diritto di ogni etnia ad avere il suo stato nazionale.

Il presidente americano Woodrow Wilson, divenuto poi nel 1919 premio Nobel per la pace, lo decretò in un discorso pronunciato l’8 gennaio 1918 davanti al Congresso degli Stati Uniti.

Il principio dell’autodeterminazione di ogni popolo permeava tutti i 14 punti della sua proposta innovativa, lanciata per la costruzione di un nuovo ordine mondiale che evitasse per sempre gli orrori di una guerra come quella in allora in corso da ormai quattro anni.

Si doveva girare pagina, scriveva Wilson dopo che gli Stati Uniti erano dovuti intervenire nel conflitto in Europa l’anno prima per aiutare l’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia e Italia) a sconfiggere definitivamente gli imperi centrali (Prussia e impero Austroungarico).

Si doveva porre fine alla diplomazia segreta che aveva caratterizzato tutte le intese tra Stati nei secoli precedenti.

L’ultimo esempio si era appena verificato in quella fine del 1917, quando i bolscevichi, conquistando il palazzo d’inverno a San Pietroburgo, al culmine della Rivoluzione russa, trovarono nei dossier segreti della cancelleria del governo russo, una copia originale del Patto di Londra, del 26 aprile 1915, quando lo Zar e i rappresentanti di Inghilterra Francia e Italia concordarono la spartizione dell’Europa al termine della guerra mondiale.

La pubblicazione del Patto su tutti i giornali europei destò scalpore e suscitò un grande imbarazzo per i governi firmatari.

L’opinione pubblica scese in piazza protestando contro una diplomazia segreta che per decenni aveva determinato le sorti dei popoli senza alcuna trasparenza, spiegazione e coinvolgimento.

Wilson colse la palla al balzo e divenne il protagonista di una proposta rivoluzionaria per i tempi che, nella sostanza, vietava ogni intesa internazionale segreta, sancendo l’obbligo di una trasparenza e chiarezza a carico di ciascuna nazione.

Qual era il contenuto sostanziale del messaggio di Wilson: proviamo ad analizzarlo nel dettaglio immaginato dal presidente americano. Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo, esclusivamente in capo alla comunità degli Stati, a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera o facente parte di uno Stato che pratica forme di discriminazione, possa determinare il proprio destino istituzionale in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi ad un altro Stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Il principio, nell’ambito del diritto internazionale, esplica però  i suoi effetti solo sui rapporti tra gli Stati e non sancisce alcun diritto all’autodeterminazione in capo ad un popolo: quest’ultimo infatti, non è titolare di un diritto ad autodeterminare il proprio destino ma è solo il materiale beneficiario di tale principio, i cui effetti, invece, si ripercuotono solo sui rapporti tra Stati: questi, se ne ricorrono le anzidette condizioni, sono tenuti ad acconsentire all’autodeterminazione.

Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale generale, cioè una norma che produce effetti giuridici per tutta la comunità degli Stati.

Come potete constatare una gran bella affermazione astratta che, quando “si cala” nella realtà politica può creare, come è accaduto nel secolo scorso e continua a succedere, enormi guai!

Inoltre, questo principio è anche una norma di ius coges, cioè un diritto inderogabile, un principio supremo e irrinunciabile del diritto internazionale, per cui non può essere derogato mediante convenzione internazionale.

Chi oserebbe dichiararsi contrario ad un principio di coesistenza pacifica tra i popoli così alto, democratico, rispettoso delle etnie e delle minoranze?

Nessuno, salvo constatare che dopo circa un secolo da quella straordinaria intuizione del presidente americano, l’applicazione di quel principio ha dato luogo a tutte le tragedie del 900.

Facendo leva proprio sul diritto delle genti a rivendicare la propria autonomia indipendenza, molte leadership politiche, strumentalizzando il principio, hanno giustificato le proprie decisioni imperialiste o separatiste o autonomiste, creando i presupposti per il ripetersi di un “bagno di sangue” per tutti gli esseri umani coinvolti in ogni singola controversia.

Siamo di fronte ad un problema irrisolto: l’astrattezza di un principio assolutamente condiviso e condivisibile e la difficoltà di una sua applicazione corretta e conforme alle volontà e ai sogni del suo inventore.

La domanda cruciale rimane la stessa: chi decide la legittimazione (o la non legittimazione soprattutto) di un popolo, di un’etnia a rivendicare una propria autonomia territoriale e una propria indipendenza politica? Chi decide chi ha ragione e chi ha torto in un conflitto tra etnie diverse che rivendicano il proprio diritto alla propria autodeterminazione sia politica sia linguistica sia territoriale?

La legge del più forte? L’esito di una battaglia? Il risultato di un conflitto armato? Un tavolo bilaterale, magari organizzato con il supporto di un negoziatore terzo di indipendente che sancisca i diritti e doveri delle parti in causa?

La storia del secolo scorso ci offre molti spunti e parecchi diversi scenari per dare una risposta a questi dubbi e a questi interrogativi.

L’attualità di questa problematica l’abbiamo di fronte agli occhi anche oggi, tutti i giorni quando assistiamo angosciati alla tragedia Ucraina.

“A monte” dell’invasione russa (sia chiaro, e lo abbiamo già scritto: siamo di fronte ad una violazione del diritto internazionale e quindi non ci sono dubbi su chi abbia torto o su chi abbia ragione) ci troviamo di fronte di nuovo al richiamo formale del diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli del mondo, più o meno strumentalizzato o addirittura utilizzato a fini propagandistici ma in un’unica direzione: il diritto non vale per tutti i popoli ma soltanto per alcuni… quelli che decide il dittatore di turno.

Provate a riavvolgere il nastro e vedrete che lo stesso Putin fin dal 2005 fu un accanito sostenitore del diritto all’autodeterminazione politica e territoriale, prima delle regioni della Crimea poi di quelle del Donbass: sono etnie russi-sosteneva e sostiene il leader del Cremlino- che hanno diritto a separarsi dall’Ucraina e ad entrare a far parte della grande Russia. Nessuno può negare loro questo diritto!

Affermazione forte ma che, se provata per esempio attraverso un referendum indetto dalle popolazioni dei territori interessati dalla problematica politica e identitaria sollevata da Putin, potrebbe avere una sua logica proprio se correlata al principio codificato dal presidente americano Wilson nel 1918.

Ma che dire di fronte allo stesso Putin che, contemporaneamente, legittima l’invasione dell’Ucraina (ops: l’operazione speciale in corso in Ucraina!!!!) sostenendo che il governo di Kiev non ha nessuna legittimità autonoma in quanto l’Ucraina fa parte da sempre della Russia e non può legittimamente rivendicare indipendenza o peggio autodeterminazione.

Anche se… la maggioranza dei cittadini ucraini, attraverso elezioni politiche libere e democratiche, ha votato per una maggioranza del parlamento e per un presidente, Zelensky appunto, che si oppone, anche con le armi, ad una invasione russa illegittima, violenta, al di fuori di qualsiasi norma internazionale.

Gli obiettivi di Wilson erano alti e virtuosi ma probabilmente anche velleitari soprattutto in relazione a come siamo fatti noi esseri umani.

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