LA PREMESSA. I tragici eventi di Macerata hanno evidenziato ancora una volta – semmai ce ne fosse bisogno – a quale livello di tensione e di esacerbazione sia giunta una buona parte della comunità nazionale, sul tema spinoso dell’immigrazione. Ciò non tanto per gli episodi eclatanti e brutalmente violenti che si sono consumati nella città marchigiana, quanto per l’inquietante corollario di manifestazioni di sostegno e solidarietà alle azioni del delinquente Traini.

E a soffiare sul fuoco di questa tensione contribuisce una campagna elettorale poco edificante, specchio dell’attuale società, nella quale si confrontano solamente prese di posizione ideologiche, o superficialmente “buoniste” o ancora demagogiche.

Da un lato c’è chi sfrutta la paura, la frustrazione, il senso di abbandono o semplicemente la grettezza di una parte della popolazione, cercando di tirare acqua al proprio mulino elettorale, sbandierando proclami improbabili e volutamente populisti. Tra questi, c’è chi annuncia che aumenterà immediatamente i rimpatri di alcune centinaia di migliaia di persone, dimenticando i costi associati a tali operazioni e, soprattutto, il fatto che esse richiedono accordi con i Paesi destinatari, i quali devono accettare di riprendersi gli immigrati espulsi. Progetto irrealizzabile se non forse in parte e solo dopo anni di lunghe trattative diplomatiche con i Paesi di provenienza degli immigrati.

Poi c’è chi fa pubblicamente affermazioni improbabili quali “l’Islam non è compatibile con la nostra Costituzione”, facendo riferimento al trattamento riservato alle donne nell’ambito di certe componenti ultra conservatrici di alcune società islamiche; dimenticando che, già ad attuale Costituzione vigente, nella cattolicissima Italia, indossare la minigonna non era considerato conforme al buon costume, le donne entravano in Chiesa con il capo velato, il “delitto d’onore” beneficiava di attenuanti; addirittura in tempi relativamente recenti, la sentenza di un Tribunale della Repubblica ha riconosciuto un’attenuante in un caso di violenza ai danni di una donna che vestiva “provocanti jeans”. In realtà, sono molto meno compatibili con la nostra Costituzione manifestazioni razziste e xenofobe!

Da un’altra parte, però, c’è chi ignora e per troppo tempo ha ignorato in modo negligente l’esistenza di un problema. Per troppo tempo, le classi dirigenti di sinistra e liberal nel mondo (e anche in Italia) hanno snobisticamente bollato come populiste e razziste le istanze di certe fasce della popolazione (spesso le più deboli), rispetto a problemi di integrazione e di criminalità causati dall’immigrazione; istanze che, al contrario, avrebbero meritato attenzione e considerazione, perché in parte fondate.

Insomma, lo spettro del confronto nella società e nella campagna elettorale va da un estremo molto prossimo al razzismo, ad un altro eccessivamente “buonista”, fautore dell’accoglienza a tutti i costi, senza gestione del tema.

Nessuna delle due posizioni contribuisce in modo utile alla soluzione dei problemi. Occorrerebbe un po’ più di onestà intellettuale e di serietà su tutti i fronti dello schieramento.

Perché oggi gli studi, le analisi e le statistiche offrono alcuni dati incontrovertibili. La criminalità (specie la cosiddetta microcriminalità, che crea maggiore allarme sociale in certe fasce della popolazione, le più deboli, ed in certe aree urbane e suburbane del Paese) è maggiore laddove maggiore è la concentrazione di immigrati maschi clandestini, senza posizioni lavorative stabili e regolari. Immigrati maschi clandestini. Ignorare l’esistenza del problema, respingere come populiste le istanze delle popolazioni interessate da questi problemi è sbagliato, grave, profondamente irresponsabile.

I medesimi studi dicono, però, anche che la criminalità diminuisce in quei contesti in cui migliore è l’integrazione degli immigrati. Immigrati integrati si considerano parte della comunità in cui vivono, la loro comunità, e, come gli italiani, hanno tutto l’interesse affinchè essa sia tutelata. Pensare che la soluzione del problema passi per politiche che neghino l’integrazione è, dunque, sbagliato e controproducente.

ALCUNE PROPOSTE. E allora perchè non si prova ad affrontare il problema, immaginando una giusta miscela di fermezza, regolamentazione ed accoglienza ed integrazione, senza demagogia e preconcetti ideologici?

1) L’integrazione degli immigrati regolari nella comunità nazionale deve essere una priorità assoluta, in quanto strumento essenziale di deflazione delle tensioni sociali. In quest’ottica, non credo che forzature poco digerite dalla comunità nazionale, come le proposte di uno ius soli un po’ isolato e non accompagnato da un percorso di condivisione, possano aiutare.

Lo ius soli è il cardine del sistema di integrazione nell’ordinamento USA. E’ sufficiente nascere in qualsiasi luogo degli USA (o addirittura su un aereo dell’American Airlines) per acquisire lo status di cittadino, a prescindere dalla discendenza di sangue. Questo sistema funziona e consente di integrare nuovi cittadini se le società di accoglienza sono molto forti, molto integrate, con solidi legami identitari, con un tessuto sociale ed un legame comunitario indissolubili, in cui il collante prescinde da elementi nazionali, culturali, razziali, linguistici. Nell’esperienza USA, si è cittadini americani non perchè si condivide una radice nazionale omogenea, ma in quanto ci si riconosca in un sistema di valori condivisi, che identificano l’homo americanus, indipendentemente dall’elemento “nazione” in senso romantico ottocentesco, a prescindere dalle radici culturali. In una società come quella italiana, ben lungi dall’avere la solidità ed il forte collante di cui sopra, l’estensione della cittadinanza, a prescindere da legami di sangue, senza un percorso che consenta ai nuovi italiani di acquisire – almeno in parte – quegli elementi di identità che individuano il soggetto appartenente alla comunità nazionale italiana non è utile alla comunità, né al soggetto che vi deve entrare; rischia, anzi, di essere dirompente e disgregante. I nati sul suolo italiano da genitori cittadini stranieri devono poter accedere alla cittadinanza, se le famiglie di provenienza hanno fatto un percorso (che possono trasmettere ai figli) di integrazione, di apprendimento della lingua e della cultura italiana, dei valori fondamentali cui essa si ispira, e dopo essere stati presenti sul territorio nazionale per un periodo ragionevole (almeno 5 anni) durante i quali hanno condotto esistenze rispettose delle leggi.

2) I reati di qualsiasi natura commessi con l’aggravante della discriminazione razziale devono essere puniti severamente e le pene devono essere inasprite. Le civili società occidentali non si possono permettere alcun rigurgito di idee e ideologie già sepolte con ignominia nella nostra storia.

3) L’accoglienza deve coniugarsi con il concetto di sostenibilità. L’attuale Governo ha già avviato un processo di coordinamento e di condivisione dell’allocazione degli immigrati con le comunità locali. Occorre proseguire su questa strada, intensificando il coordinamento con tutti gli operatori dell’accoglienza presenti sul territorio, facendo sì che essi mettano a fattor comune strutture, risorse, esperienze, know-how e capacità professionali. Sui territori e nelle grandi metropoli operano numerosi enti (penso alle diocesi, parrocchie, associazioni caritatevoli, strutture comunali) che spesso si muovono in modo scoordinato, con dispendio di risorse ed energie che potrebbero essere utilizzate in modo più efficiente se messe in rete.

Un’attenzione particolare dovrebbe poi essere dedicata all’accoglienza ed alla tutela delle donne immigrate, specie se con prole. Anche in considerazione del ruolo che le donne hanno nelle culture di molti dei Paesi da cui provengono gli immigrati e comunque in virtù della funzione “naturale” che svolgono rispetto all’educazione dei figli, esse, se adeguatamente aiutate, sostenute ed educate ai valori civici della nostra comunità nazionale, possono essere i più importanti ed efficaci veicoli di trasmissione dei valori medesimi e, dunque, acceleratori di integrazione.

4) Deve essere una priorità delle classi dirigenti garantire il presidio dello Stato in quelle aree del Paese e, in particolar modo, in certe aree urbane e sub-urbane in cui si concentrano i gruppi di immigrati irregolari che creano allarme sociale e ingrossano le fila della criminalità Ciò sia a tutela delle popolazioni locali, sia a tutela degli immigrati regolari, anche per evitare che il diffuso senso di insicurezza (reale o percepito) alimenti sentimenti xenofobi, di scontro, di respingimento, che vanno nella direzione contraria all’integrazione.

L’allarme maggiore oggi si ha nelle aree metropolitane.

Il primo passo deve essere quello del recupero delle aree periferiche delle città, da troppo tempo neglette dalle classi dirigenti locali, specie (sorprende constatarlo) da quelle di sinistra, troppo occupate ad imbellettare i centri e le zone chic. Insieme al recupero urbano, occorre recuperare il presidio del territorio da parte delle forze di polizia, intensificando l’utilizzo dei corpi di polizia municipale. In gran parte dei Comuni, vi è abbondanza di personale sotto utilizzato in amministrazioni diverse dalla polizia municipale e nelle società partecipate, che potrebbe essere impiegata per sostituire gli agenti negli uffici amministrativi, affinchè questi escano e garantiscano un miglior presidio del territorio. Ciò sarà possibile, peraltro, se si procederà ad una rapida riqualificazione della figura dell’agente di polizia municipale, affinchè la sua autorevolezza sia restaurata. Penso a corsi di formazione professionale; a campagne di comunicazione che ne esaltino le virtù e segnalino comportamenti virtuosi o magari addirittura eroici; a pattuglie miste con la Polizia di Stato ed i Carabinieri; ad una divisa più “marziale” che incuta rispetto (perché anche i segni esteriori hanno la loro importanza).

5) La funzione dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) è difficilmente eliminabile. Oggi, però essi sono enormi “parcheggi” per migliaia di persone, in attesa che le autorità dei Paesi di provenienza consentano il rimpatrio stesso. Le persone entrano nei CIE senza avere alcuna certezza di quando potranno uscire. Vivacchiano senza fare nulla ed abbruttendosi nell’angosciosa incertezza, a volte pare anche per anni, in un melange incredibile di umanità, tra razze, nazionalità, religioni, ma soprattutto delinquenza, giovani disperati e per bene. Quale violenza e, ancor più, che spreco di energie e di risorse!

Mi piacerebbe immaginare un progetto che, senza obblighi ma su base volontaria, utilizzasse i servizi di queste persone, equamente retribuite, a beneficio di grandi progetti infrastrutturali del Paese. Penso, in particolare, alla necessità non più procrastinabile che grandi fette di territorio del Paese, soggette a rischi sismici ormai tristemente ricorrenti, siano messe in sicurezza. Perché non utilizzare le persone volontarie “parcheggiate” nei CIE? Ci sarebbe un recupero di risorse a beneficio del Paese, ma anche un recupero di dignità per tante persone, costrette a vivere oggi in condizioni che non si possono certamente definire degne del sistema di valori cui la nostra società si ispira.

6) Occorre essere onesti e pragmatici. Di fronte alle grandi masse di immigrati in movimento dal sud del mondo, la politica di un solo Paese rischia di essere sterile se non si inquadra in un più ampio sistema di collaborazione e condivisione internazionale.

6.1) In Europa, c’è bisogno di un rafforzamento delle strutture di controllo delle frontiere comuni verso l’esterno, con un maggiore coordinamento tra le forze di polizia ed una maggiore condivisione delle risorse, anche finanziarie, necessarie a contrastare l’immigrazione clandestina con finalità criminali (siano esse di terrorismo internazionale o di altra natura). Un corpo unico di polizia europea di frontiera sarebbe oggi necessario.

6.2) E’ tempo che l’Europa assuma la responsabilità che le compete per promuovere il progresso economico e sociale in quelle zone del mondo in cui povertà, abbandono sociale, mancanza di prospettive scatenano i grandi flussi migratori. Peraltro, in quei contesti, chi lascia le proprie case per tentare le avventurose traversate di deserti e mari non sono i più poveri, i più diseredati. Sono coloro che possono permettersi di pagare i trafficanti di gente. Coloro che partono sono quelli che potrebbero meglio contribuire alla rinascita ed allo sviluppo sociale ed economico dei Paesi di provenienza. A rimanere in quei territori sono i più poveri, i meno attrezzati anche dal punto di vista culturale ed intellettuale. Si ingenera così una spirale perversa di depauperamento economico, sociale, intellettuale progressivo ed inarrestabile. O si ferma questa spirale, o le masse in movimento saranno destinate ad aumentare, in modo che non sarà più controllabile ed arginabile dai nostri Paesi, con conseguenze difficilmente immaginabili.

Nel medio-lungo periodo, un nuovo e serio “piano Marshall” che porti e agevoli investimenti produttivi in quelle aree del mondo, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni economiche internazionali e delle banche multilaterali di sviluppo, potrebbe creare le condizioni perché le popolazioni locali, specie nelle loro componenti giovanili e più produttive, non avvertano la necessità di migrare come unica prospettiva per il loro futuro e rimangano per contribuire alla crescita economica e sociale dei loro Paesi.

7) Gli interventi, le opere e le spese finalizzate a risolvere i problemi connessi con l’immigrazione delle grandi masse di disperati dal sud del mondo dovrebbero uscire dalla rigidità del vincolo di bilancio imposto dalle istituzioni europee che richiede che il rapporto deficit / prodotto interno lordo non ecceda il 3% (rigore, ben inteso, che altrimenti condivido).

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