Il dibattito sul capitalismo si arricchisce di nuovi spunti.

Il confronto tra i capitalisti che pensano solo a soddisfare gli shareholder (gli azionisti)  e quelli che iniziano a rivolgere il loro sguardo anche verso gli stakeholder (verso un target più ampio di destinatari) si sviluppa con nuove aperture, nuovi stimoli.

Nuove consapevolezze che, in ogni caso, bisogna cambiare paradigma.

Produrre ricchezza e profitti “solo” per gli azionisti o per i  manager, non è più sufficiente.

Non basta più per riformare davvero il capitalismo e riportarlo in una posizione più consona per risolvere i problemi prioritari del nostro pianeta, stremato dalla pandemia e dai malesseri della gran parte della popolazione mondiale.

Bisogna allargare il perimetro dei destinatari dei profitti originati dal modello economico.

Bisogna creare ricchezza per una comunità più ampia rispetto agli interessi degli azionisti e dei  manager.

Quando abbiamo, qualche mese fa, iniziato queste riflessioni sulla necessità di un cambiamento profondo del capitalismo “caimano” e speculatore degli ultimi vent’anni, molti lettori de L’Incontro ci scrivevano … magari!

Sempre, con il tono e lo sguardo di chi legge e apprezza i visionari a rischio però di diventare utopisti.

Il capitalismo non cambierà mai, ci dicevano, modificherà qualcosa nei suoi meccanismi, concederà qualche “brioches pour les cochons” ma non rivoluzionerà mai il suo Dna, mirato alla distribuzione della ricchezza limitata ai propri azionisti e manager.

E invece … invece qualcosa sta cambiando, come dimostra il dibattito lanciato proprio su le colonne di questa testata da Andrea Rapaccini.

Con “l’aiuto” della tragedia pandemica anche i più rigorosi difensori del neo liberalismo imperante sembrano meno rigidi, meno sicuri delle loro convinzioni.

Più disponibili a capire che il mondo per crescere attraverso una qualità della vita più diffusa e meno disuguale, deve modificare le sue regole del gioco, prestare più attenzione ai meno fortunati, ai più poveri, alle vittime della globalizzazione dissennata degli ultimi anni.

La ricostruzione del sistema industriale dovrà passare attraverso una profonda revisione delle regole per essere in grado di vincere le sfide più importanti che ci attendono: dalla lotta alle disuguaglianze alla protezione dell’ambiente, dalla rivoluzione digitale alla parità di genere e alla integrazione dei migranti.

Il profitto personale, scrivono i più attenti e visionari politologi, economisti e filosofi mondiali, deve essere bilanciato con il miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini.

La protezione dei consumatori e dei loro diritti diventa una priorità da bilanciare con il diritto degli imprenditori a massimizzare i loro guadagni.

Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, segnalava proprio in questi giorni il nuovo corso del modello economico attuale attraverso l’esempio di alcune start-up di successo, che offrono la cifra del nuovo capitalismo, denominato Social Impact, quello dell’impatto sociale sulle sue scelte di investimento e di creazione di valore.

Molinari elencava alcuni casi rappresentativi di questo cambiamento di tendenza: la start-up di ingegneria robotica Zipline che usa i droni per recapitare medicinali salva vita nelle località più sperdute dell’Africa; l’israeliana Orcam che ha investito nell’intelligenza artificiale per costruire automobili destinate ad essere guidate da non vedenti; quella del brasiliano Pereira che ha creato un software in grado di far comunicare i disabili solo con il movimento dei loro occhi.

Questa è la punta di un iceberg che sta mostrando a tutti …quelli che vogliono vederlo, quanto e cosa ci possa essere “sotto il livello dell’acqua”, nel  mondo dell’economia a impatto sociale.

“Tra il 2019 e il 2020 – ha scritto Molinari – il mercato delle società “ESG” (Environmental Sustanaible Governance con cui si classificano le aziende che investono in progetti responsabili) è cresciuto da 22 a 31 trilioni di dollari raggiungendo il 15 di tutti gli investimenti finanziari globali e dimostrando che avere un impatto sociale positivo non è solo un investimento che produce consenso, ma anche un buon business”.

Le indagini di mercato più recenti evidenziano che i consumatori (i nuovi stakeholder da corteggiare e non solo da spremere nelle opportunità di acquisto) spendono con maggior facilità per acquistare beni e servizi che percepiscono come uno strumento per migliorare il mondo in cui viviamo.

Questo significa che il consenso crescente, non solo tra i giovani, per risposte efficaci a cambiamenti climatici, disuguaglianze, parità di genere, migranti e inclusione digitale, porta a consumare in  maniera conseguenteha concluso il direttore de La Repubblica.

Il libro di Ronald Cohen, pubblicato in Gran Bretagna con il titolo “Impact” (Penguin Book, 2020) uscito alla vigilia della pandemia, ha avuto il merito di anticipare questo nuovo scenario, dipingendone le caratteristiche nuove e innovative rispetto al modello neoliberista uscito a pezzi dall’ultimo decennio di crisi economiche, sociali e sanitarie.

Ecco perché dobbiamo diventare consapevoli che nella ricostruzione del post-Covid, in tutto il mondo, sarà indispensabile il ruolo dello Stato nell’economia, con la responsabilità dei governanti di andare oltre la necessità di far debiti per generare ricchezza.

Bisognerà studiare e condividere ricette innovative per migliorare la qualità della vita dei cittadini come strumento “Non solo di stabilità sociale ma anche di rinascita collettiva” sempre citando Molinari.

Una rinascita collettiva basata anche sulla nuova concezione nella gestione dei Beni Comuni, da non considerarsi come beni “altrui” ma come Beni “nostri” pro quota, da gestire con cura, attenzione, rispetto, educazione e responsabilità economica.

La rinascita, dicevamo, deve porsi come obiettivi la protezione delle categorie più deboli, più fragili, non solo economicamente ma anche dal punto di vista sanitario.

Stiamo parlando, come ben sottolineato da Molinari, “di chi soffre per le disuguaglianze; di chi è minacciato dai cambiamenti climatici; di chi perde il lavoro solo a causa del suo genere; di chi non riesce ad integrarsi dove vuole vivere; di chi è scartato dal mondo della produzione a causa delle innovazioni tecnologiche; di chi è malato, anziano o disabile e ha bisogno di aiuto.”

Indipendentemente da quale filone di pensiero prevarrà tra i sostenitori del target shareholder o del target stakeholder, è evidente che le implicazioni dell’una e dell’altra teoria saranno di portata significativa, influenzando tutti i processi aziendali, dalla misurazione della performance, ai sistemi incentivanti dei  manager, alle nuove competenze di cui sarà necessario dotarsi.

I presupposti teorici sono comunque, a nostro avviso, condivisibili:

  • Senza la promessa di massima creazione di valore per gli azionisti verrebbe mortificata la volontà di rischiare il proprio capitale per fare impresa, con le conseguenze potenzialmente disastrose per l’economia derivanti da una ridotta propensione al rischio, all’imprenditorialità e all’investimento;
  • In un mondo di tale portata competitiva, un’azienda, per fare profitto, è chiamata a realizzare prodotti eccellenti, in grado di soddisfare i clienti, innovandosi costantemente.

Bisogna cercare di ridurre e minimizzare le distorsioni esistenti all’interno dei due assunti citati.

Ad esempio, l’avvalersi di  manodopera a condizioni estremamente degradanti per i dipendenti ma parimenti vantaggiose in termini economici. E’ indubbio che la lettura del bilancio di quell’azienda, per stabilirne il valore, sarebbe eccellente in relazione alla marginalità del conto economico, senza poter scorgere tra le righe di quel bilancio gli impatti negativi che tale marginalità ha comportato per le condizioni di vita die dipendenti.

Un altro esempio ci viene dall’inquinamento ambientale e dalla sua non immediata riconoscibilità dalla struttura del bilancio. L’introduzione del nuovo bilancio sociale e ambientale ha cercato proprio di correggere tale omissione, obbligando l’azienda ad evidenziare il proprio impegno per la tutela dell’ambiente.

Stesso discorso vale per l’attenzione sociale: bisogna evitare che ai primi segnali di crisi siano sempre i dipendenti a pagare dazio attraverso forme di intervento come quelle definite di “macelleria sociale”.

Non sempre, scriveva il finanziere italiano Michele Padovani (Executive Director del fondo Cherry Bay Capital) su L’Inkiesta,  in questi casi il valore per gli shareholder e per gli stakeholder è allineato.

Il metodo di  misurazione ESG permette proprio di misurare l’azienda non solo sui risultati finanziari ma anche sui parametri di inclusività, rispetto dell’ambiente e ricadute sociali.

L’azienda potrebbe così incrociare gli interessi degli azionisti e quelli più allargati degli stakeholder.

Le metriche ESG sono in grado di allineare in modo efficiente gli obiettivi degli azionisti (l’aumento, cioè, del valore del titolo in borsa) e gli obiettivi dei dipendenti, dei clienti, dei fornitori, della comunità in senso più ampio che vive intorno all’azienda (tutela dell’ambiente, generazione di opportunità e condizioni di un benessere allargato).

La valutazione della sostenibilità aziendale allargata a parametri ulteriori rispetto al solo profitto, potrebbe mettere fine al confronto tra i due modelli di capitalismo di cui parlavamo all’inizio.

Permetterebbe infatti di mettere sullo stesso piano l’importanza degli azionisti e dei  manager e di tutti i soggetti in qualche modo coinvolti e inclusi nel processo di creazione del valore aziendale.

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