Il tema è affascinante.

Apparentemente semplice, ma in realtà complesso e spinoso.

Antico come la storia dell’uomo.

Un busillis senza una risposta certa: controverso e soggettivo.

Si presta ai ragionamenti più diversi e personali.

Eppure, dovrebbe essere il tema della nostra vita: cosa è la felicità?

Ci siamo già esercitati in passato, su questo blog, ad analizzare le varie teorie, cercandone i razionali di fondo.

Alla fine, anche per esperienza diretta, maturata sui marciapiedi privati e pubblici, di questo nostro mondo, ci siamo convinti di un punto: forte, centrale, condivisibile o meno che possa essere.

Non c’è denaro, non c’è potere, non c’è successo che tenga: la vera, profonda ed unica felicità ce la regalano le buone relazioni con gli altri esseri umani. Soprattutto con quelli a cui teniamo, a cui vogliamo bene.

Possiamo avere un conto in banca da sei zeri, una meravigliosa carriera in corso o alle spalle, delle importanti vittorie professionali o sportive nel nostro carnet, ma nulla ci potrà scaldare il cuore come una buona, sincera, costruttiva, paritetica relazione umana con le persone a cui teniamo.

Questa riflessione vale non solo in amore, ma anche nel mondo delle amicizie o anche, soltanto, nei rapporti con individui che conosciamo meno, non fanno parte del nostro cerchio magico degli affetti più vicini e sentiti, ma che stimiamo molto ed il cui giudizio su di noi non ci lascia indifferenti.

Oggi, uno studio americano condotto dallo psichiatra George Vaillant, professore ad Harvard, indagine denominata “Harvard Study of Adult Development” ci conferma questa nostra analisi, questo nostro sentiment: “ciò che rende felici e in salute per tutta la vita è avere delle buone relazioni”.

Queste sono le conclusioni di uno studio iniziato nell’altro secolo, nel 1938, con l’obiettivo di approfondire lo sviluppo adulto normale, seguendo le persone dall’adolescenza alla vecchiaia.

L’indagine ha monitorato le vite di 724 uomini, divisi in due gruppi, il primo composto da studenti del secondo anno dell’Harvard College, il secondo da un campione di ragazzi (dai 12 ai 16 anni), abitanti dei quartieri più poveri di Boston, individuati proprio in quanto figli di famiglie bisognose e svantaggiate della città in quegli anni Trenta.

La ricerca continua ancora oggi, oltre ottant’anni dopo, con un campione di circa 1.000 esseri umani, uomini e donne naturalmente, che continuano ad essere monitorati come il primo target del 1938.

Il team di ricercatori del professor Vaillant ha costruito quindi un monumentale archivio della vita umana, attraverso un continuo monitoraggio della salute fisica e mentale del campione individuato.

Il metodo della ricerca è basato proprio sulla frequentazione fisica ed intellettuale con i soggetti coinvolti: ci sono vere e proprie interviste, confronti continui con le preoccupazioni più intime dei ragazzi, analisi delle loro vite quotidiane e della qualità e durata dei loro matrimoni, delle loro attività lavorative e sociali. Nel campione dei soggetti analizzati sono rappresentati tutti i ceti sociali: avvocati, operai, muratori, dottori, tutti rigorosamente protetti dalla garanzia dell’anonimato (è soltanto trapelato il nome di uno di quei ragazzi, che sarebbe diventato un indimenticabile presidente degli Stati Uniti d’America: John F. Kennedy).

I risultati dell’indagine sono molto interessanti dal punto di vista antropologico. Alcuni dei soggetti hanno utilizzato l’ascensore sociale dal basso verso l’alto, altri hanno fatto il percorso inverso. Ci sono casi di alcolismo, di schizofrenia, di droga. Del gruppo iniziale ne sono sopravvissuti meno di 20, perlopiù ultranovantenni.

Mettendo insieme tutto l’enorme materiale raccolto, è emerso che la qualità e la forza delle relazioni, inclusi il matrimonio, la famiglia, gli amici e le relazioni con la comunità, sono alla base della felicità e del benessere.

Nel commentare lo studio, su le colonne de La Stampa, Eugenia Tognotti sottolinea come una delle conclusioni più importanti dell’indagine sia la rilevanza negativa della solitudine.

Le persone più sole sono le meno felici e normalmente sono o diventano malate.

Lo studio del professor Vaillant evidenzia come le persone sposate e senza “problemi seri” fino a cinquant’anni hanno vissuto meglio delle altre. “Del resto, il ruolo di matrimoni stabili e solidali nell’assicurare un minor rischio di lieve compromissione cognitiva, è confermato da innumerevoli studi di tutto il mondo”.

Che cosa ci insegna dunque il risultato di questa ennesima ricerca sul grande tema di che cosa sia la nostra felicità? “La potente connessione tra il calore delle relazioni e la salute e la felicità è il fattore su cui insiste il professor Vaillant – scrive Eugenia Tognotti – buoni rapporti ci conservano più felici e più sani.”

La Tognotti ci aggiunge una sua riflessione finale che vi socializziamo e lasciamo alla vostra valutazione. “Alcuni fattori che influenzano la salute e la felicità a lungo termine sono sotto il nostro controllo. Inoltre – ed è un bel sollievo – non sono sotto il completo dominio dei geni.”.

Dunque, una solenne rivalutazione del libero arbitrio, in antitesi alle tesi sul determinismo biologico. Possiamo tornare al principio che ognuno di noi può essere artefice del suo futuro, dipende dalle sue scelte e dai suoi comportamenti.

Pickett, in larga misura, condivide.

 

Comments (1)
  1. Piero Maggini (reply)

    3 Settembre 2019 at 11:02

    Il tragico è la volatilità della memoria: certo ora che è stata ricordata la tragedia essa per un attimo ha ripreso il posto dovuto nella nostra mente ma presto cadrà nel limbo dei ricordi nebbiosi, come una sorta di guerra punica, fino alla prossima riesumazione da parte di uno spirito nobile e cosciente del dovere civile di noi tutti troppo spesso messo da parte. E’ giunta l’ora, ma è giunta da tempo, che non facciamo più deleghe di eroismo civile lasciando a cavalieri solitari il compito di riconquistare la nostra dignità perduta.

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