Il famoso giornalista ed editore Joseph Pulitzer lo scriveva già all’inizio del secolo scorso, nel 1902.

In un saggio sul valore della democrazia sottolineava come “la democrazia e la libera informazione moriranno o progrediranno insieme”.
Pulitzer divenne poi il benchmark di come bisognerebbe interpretare il ruolo di giornalista: proprio per questo nel 1917 venne istituito il premio con il suo nome.
Oggi, 122 anni dopo, siamo ancora lì, aggrappati disperatamente a quell’abbinamento irreversibile tra democrazia e libera informazione.
Per salvare il cuore delle democrazie bisogna salvaguardare la libertà dell’informazione: se no tutto precipita.
La differenza tra la democrazia e le autarchie o le tirannidi sta proprio su questo punto: nel ruolo della stampa come watch dog del potere, come “poliziotto” che sorveglia e investiga sulla correttezza delle condotte degli uomini che gestiscono il potere nella stanza dei bottoni.
Eppure, proprio in questi giorni, nel 50º anniversario dello scandalo del Watergate, la vicenda Assange é tornata alla ribalta.
La Suprema Corte inglese sta decidendo infatti se debba essere accettata o meno la richiesta di estradizione formulata dagli Stati Uniti nei confronti del cinquantatreenne giornalista australiano attualmente detenuto a Londra.
Proprio quando si ricorda e si commemora il coraggio e la professionalità di due grandi giornalisti americani che scoperchiarono le nefandezze operate clandestinamente dall’entourage del presidente Nixon durante la campagna elettorale, nello stesso tempo si assiste distrattamente ad una decisione della magistratura inglese di segno diametralmente opposto: i giudici inglesi infatti devono valutare se Assange, già condannato in America a 176 anni di carcere per aver violato le leggi sul segreto di Stato e sullo spionaggio, debba essere trasferito negli Stati Uniti per scontare questa tremenda e surreale pena.
La decisione della Suprema Corte condizionerà, in ogni caso, la vita delle democrazie occidentali.

Vale la pena, dunque,  ripercorrere i passaggi essenziali di queste due vicende che hanno segnato e stanno segnando la storia del giornalismo internazionale e dei principi fondanti della libera informazione, quella che per il grande maestro Joseph Pulitzer è fondamentale per la sopravvivenza di un regime democratico.
Il 1 marzo del 1974, dopo due anni di scandali, polemiche, smentite e insabbiamenti, alcuni membri dello staff del presidente Richard Nixon vennero condannati da un tribunale americano per aver ostacolato le indagini sulle intercettazioni illegali dello staff Repubblicano presso il comitato nazionale del Partito Democratico.
Quella clamorosa sentenza costrinse alle dimissioni, il 9 agosto di quell’anno,  il presidente Nixon, considerato il mandante politico di quegli illeciti.
Come si riuscì a scoprire le nefandezze commesse dagli uomini del Presidente?
Grazie a due coraggiosi cronisti del Washington Post diventati poi un’icona del giornalismo mondiale: Carl Bernstein  e Bob Woodward, gli indimenticabili Rober Redford e Dustin Hoffman del film “Tutti gli uomini del presidente” di Alan Padula.
I due cronisti riuscirono a smascherare gli illeciti dello staff presidenziale grazie ad una fonte interna del governo Repubblicano , denominata “gola profonda“.
Bernstein e Woodward vennero in possesso dei nomi, dei ruoli e degli intrighi commessi dai sette membri dello staff di Nixon e scatenarono uno scandalo che costrinse il Presidente a tornarsene a casa.
I due giornalisti del Washington Post violarono le leggi americane? Misero a rischio la sicurezza nazionale?
Può darsi, ma l’America di cinquant’anni fa non la pensò in questo modo e non li mandò in carcere.
Anzi i due vinsero il premio Pulitzer e divennero gli eroi del Watergate.
Julian Assange, fondatore di WikiLeaks ha realizzato un’operazione giornalistica analoga raccontando al mondo le nefandezze del potere americano dalla corruzione nei paesi arabi alle mazzette petrolifere in Perù, dai bombardamenti clandestini su paesi neutrali alle esecuzioni extragiudiziarie in Kenya. Anche Assange, per poter fare il colpo giornalistico della sua vita, ebbe la sua  “gola profonda” un ex militare di nome Chelsea Manning.
Furono 251.000 i documenti riservati pubblicati da WikiLeaks con le prove delle mistificazioni autorizzate e coperte da Bush in America e da Blair in Inghilterra, per giustificare l’invasione dell’Iraq prima e dell’Afghanistan poi, con tutte le tragedie e le vittime che ne seguirono.
Gli interrogativi che nascono sono gli stessi: Assange ha violato le norme dell’ordinamento americano? Ha messo in crisi e a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti?

La risposta della magistratura americana è stata perentoria: “Sì” e deve pagare i suoi reati con una pena detentiva di 176 anni!
Ma qual è la differenza fra i due casi?
Apparentemente, sembrerebbe che  i giornalisti del Washington Post prima e il free-lance australiano poi abbiano assolto in maniera egregia al loro ruolo di cronisti d’assalto, pronti a “mordere” il potere quando clandestinamente, all’oscuro dei suoi concittadini, commette dei reati.
Nel Caso del Watergate, però, Bernstein e Woodward divennero famosi, furono premiati, diventarono un esempio di come dovrebbe comportarsi la stampa in una democrazia libera e forte; nel caso di Julian Assange, invece, in una fattispecie sostanzialmente identica, quella stessa nazione americana si è pronunciata in maniera diversa ed opposta, condannando il giornalista per aver violato i segreti della nazione.
Due pesi, due misure dunque?
Cosa è cambiato in questi cinquant’anni? L’America? La sensibilità civile della maggioranza degli americani? Oppure cosa altro?
Se le democrazie vogliono vincere la loro difficilissima battaglia contro gli autarchi e i dittatori, devono difendere e tutelare sempre e comunque la libertà di informazione, ovviamente con dei vincoli di verità e correttezza.
Chi aiuta i cittadini del mondo a scoprire le porcherie dei potenti va ringraziato e premiato, non messo in carcere.
O sbaglio?

La questione è fondamentale per i nostri destini di cittadini liberi in democrazia.

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