La prima edizione dell’ultimo libro di Gianni Oliva è già andata esaurita.
“45 milioni di antifascisti” (Le Scie di Mondadori) è il titolo provocatorio dell’ultima fatica letteraria di uno storico che, a mio avviso, ha completato un ragionamento che aveva già iniziato nelle sue precedenti pubblicazioni sull’Italia e sugli italiani nel periodo dall’8 settembre 1943 fino al primo dopoguerra.
Gianni Oliva si è assunto il compito, coraggioso in un paese come il nostro, di rivisitare quel periodo della nostra storia recente, tragico e per certi versi anche vergognoso e che comunque ha segnato il futuro del Paese nel dopoguerra.
Visto il boom nell’Italia della ricostruzione si potrebbe dire che, nonostante la guerra civile, nonostante la successiva resa dei conti, nonostante la mancata epurazione della classe dirigente fascista, l’operazione di rilancio, anche identitario del Paese, sia riuscita positivamente.
Abbiamo girato pagina e, diretti da una classe dirigente adeguata e oggi molto rimpianta, ci siamo occupati di ricostruire il Paese sia dal punto di vista industriale, sia civile, sia etico e storico.
C’è stato, e rimane, solo un “però” da evidenziare: non abbiamo fatto i conti con il nostro passato, con il ventennio fascista.
Oliva, con questo libro, ci aiuta finalmente ad entrare in quella melassa di narrazioni di quel periodo che ci hanno sempre raccontato la storia o solo dei vincitori o solo quella dei vinti, evitando, quasi con accuratezza, di andare ad investigare sui fatti, riordinandoli e cercando di capire nella loro corretta scansione temporale, cosa sia successo in Italia dal primo dopoguerra della Prima Guerra mondiale, fino al ’45-’46.
Ho incontrato Gianni Oliva e abbiamo avuto una lunga e stimolante conversazione.
Come nasce l’idea di questo titolo provocatorio?
“In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”: ho voluto recuperare – ci racconta Oliva – la frase attribuita a Winston Churchill che fotografava, con la forza del sarcasmo, la condizione di un paese che nel 1940 era entrato in guerra inneggiando all’aggressività fascista e tre anni dopo se ne era prontamente dimenticato”
Un classico caso quindi di trasformismo, tipico della nostra storia, che però ha permesso al Paese di archiviare, forse con un eccesso di velocità, un passato nefasto concentrandosi sul futuro?
“Dopo la conferenza di pace di Parigi – spiega l’autore del libro – tutte le responsabilità della disfatta furono attribuite esclusivamente a Mussolini, alla sua cricca e a Vittorio Emanuele III. Una volta eliminati i primi a Dongo e in Piazzale Loreto ed archiviata la monarchia con il Referendum del 2 giugno 1946, l’Italia ha potuto riacquistare la sua presunta integrità politica e morale usando la Resistenza, non dimentichiamolo innescata da una minoranza di coraggiosi italiani, come alibi per un’autoassoluzione generalizzata dalle responsabilità del ventennio”.
Si mise quindi in pratica, culturalmente, il principio tracciato dal filosofo liberale Benedetto Croce che sosteneva, forse in accordo con De Gasperi e Togliatti, che il fascismo fu soltanto una parentesi negativa della nostra storia patria, dovuta ad una cricca di gaglioffi che ingannò prima e violentò poi l’opinione degli italiani. Una volta eliminata la “banda” mussoliniana, il Paese tornò ai suoi fasti risorgimentali.
Una costruzione intellettuale questa che aiutò la rimozione di cos’era successo in Italia dal ’22 al ’43, quando fu costituita la Repubblica di Salò, questa sì la vera istituzione fascista da ricordare come la vergognosa responsabile di tutti i tragici mali del Paese.
“Sì, mi sono convinto che sia andata così – osserva Oliva – per riedificare un paese distrutto sia moralmente sia materialmente non ci si poteva permettere di fare i conti con la storia, mettendo le “mani nel fango” di quanto era accaduto nel ventennio. Soprattutto non conveniva a nessuno evidenziare come nei primi anni del regime e cioè almeno fino al gennaio del ’25 quando Mussolini in Parlamento si assunse la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti battezzando l’inizio della dittatura, una gran parte della classe dirigente liberale e una gran parte degli italiani, si illuse che Mussolini potesse davvero rappresentare una terza via tra un capitalismo selvaggio e cinico e un bolscevichismo distruttivo della proprietà privata e dei valori della democrazia”.
Invece la cruda realtà, spesso volutamente dimenticata, è quella che si ritrova, a mio avviso, nella famosa affermazione di Piero Gobetti, il martire dell’antifascismo, massacrato di botte dalle squadracce mussoliniane. Gobetti disse che il fascismo rappresentava l’autobiografia di un paese pieni di vizi e difetti. Altroché una piccola parentesi negativa di una storia virtuosa: una fotografia degli italiani non certo “brava gente”!
La vulgata assolutoria permise ai perdenti di salire così sul carro dei vincitori evitando una epurazione che colpì soltanto pochissimi fascisti.
“In questo modo la memoria storica – precisa l’autore – venne spazzata via ed ebbe inizio una nuova stagione. Per eliminare una classe dirigente bisognava però averne un’altra a disposizione: come defascistizzare tutto e tutti se in quegli anni pressoché tutto e tutti erano stati fascisti?”
E qui veniamo al “succo” della tesi di Oliva: “La rottura con il passato si rivela così un brusco e disarmante riciclo senza pudore di uomini, di strutture e di apparati: nel libro racconto alcuni casi emblematici di questa continuità della classe dirigente fascista nella nuova Repubblica italiana. Cito quello eclatante di Gaetano Azzariti, un magistrato, che, da presidente del Tribunale della Razza, il massimo organismo dell’aberrazione raziale, diventa, vent’anni dopo, presidente della Corte Costituzionale, massimo organismo di garanzia della democrazia, senza che nessuno gli abbia chiesto di ritrattare, né il monarchico Badoglio, né il comunista Togliatti, né il democristiano Gronchi”.
Qualcuno potrebbe interpretare, lo dico ovviamente in modo provocatorio, quella continuità di autorevole ruolo nelle istituzioni italiane di Gaetano Azzariti, come finalmente un esempio di meritocrazia …in un paese che difficilmente l’ha applicata.
“Sì, è una interpretazione divertente, ma grottesca. In Italia non c’è stato il processo di Norimberga ai responsabili del regime: salvo pochi casi ci siamo ritrovati ai vertici delle istituzioni e soprattutto della burocrazia pubblica gli stessi soggetti che avevano soltanto cambiato il colore della camicia. Da nera a bianca!”
Era ora che un autore rompesse l’oblìo su questa ricostruzione parziale e manipolata della nostra storia durante il regime fascista.
Come dicevo, Gianni Oliva ci costringe, ancora una volta, a guardare alla storia con onestà, facendo luce su quanto i “conti non fatti sul passato” pesino ancora sul nostro presente.