Pickett è reduce dalla lettura di un libro di Luis Sepulveda che alza il coperchio su temi che abbiamo archiviato o, meglio, che pensiamo siano ormai marginali o, addirittura, utopici nella complessa e caotica realtà che stiamo faticosamente vivendo.

Il libro, che sarà presentato a Milano il prossimo 23 aprile durante la  manifestazione “Tempo di Libri”, si occupa, in particolare, di una parola delicata, conosciuta ma non molto praticata: la felicità!

Uno stato d’animo a cui l’essere umano dovrebbe tendere e avrebbe tutti i diritti di farlo. Uno “status” mentale, l’essere felici, che incontra e ha sempre incontrato ostacoli, barriere materiali e psicologiche, “tappi” che ne impediscono il raggiungimento, la completa soddisfazione.

È difficile, scrive Sepulveda, e come non dargli ragione, parlare oggi di felicità e di futuro. Non per questo però dobbiamo arrenderci, abdicare al tentativo di provarci lo stesso, almeno ragionandoci sopra.

Sepulveda usa come strumento per la sua narrazione (di cui sono co-autori Carlo Petrini e José Mujica) un personaggio chiave della sua vita: Salvator Allende. In particolare, proprio per provare a sbrogliare il nodo della matassa di un tema così spinoso ma suggestivo come quello di porsi il traguardo della felicità, ricorda la sua esperienza di guarda del corpo personale dell’allora Presidente del Cile. Durante tale passaggio esperienziale, Sepulveda ricorda, partendo da una famosa  e deludente intervista del giornalista francese Regis Debray, già compagno del Che in Bolivia proprio sul finire degli anni ’60, intervista pubblicata sulla rivista Le Nouvel Observateaur nel marzo del 1971, quando Allende, secondo Debray, stava tradendo i principi della rivoluzione comunista da lui proclamata. Dopo aver criticato il modello di gestione del governo di sinistra diretto appunto da Allende, troppo permissivo, ad avviso di Debray, verso le opposizioni, troppo libertario nel rispetto della pluralità partitica, troppo generoso nel rispetto della libertà di stampa e di espressione, il giornalista francese non seppe rispondere all’unica domanda rivoltagli da Allende, dopo il completamento della lunga serie di critiche citate: “Sai qual è l’aspettativa di vita di un cileno?” “A differenza dei francesi (68 anni) dei tedeschi (68/69 anni) degli scandinavi (70 anni), i cileni sperano di vivere … 52 anni! Noi stiamo facendo questa rivoluzione per poter sperare di vivere 68,70 anni come i francesi, i tedeschi e gli scandinavi. Vivere più a lungo ma anche in una condizione che dovrebbe essere lo stato naturale dell’uomo e che si chiama felicità”.

Il Presidente cileno raccontò poi ai suoi fedelissimi due episodi recenti della storia contemporanea del mondo in cui la classe dirigente politica, in Cile nel 1932 e in Spagna nel 1934, raggiunto il potere, concentrò la sua attenzione su un punto specifico del programma elettorale: l’individuazione degli ostacoli che impediscono agli esseri umani di raggiungere la felicità. Un’utopia? Forse, ma quelle due volte i leader politici ci provarono sul serio. Vennero sconfitti ma il laboratorio lasciò il segno. Non eredi che portarono avanti quell’idea ma uomini, anche politici, che poi ci riprovarono negli anni a venire. Certo, con risultati  marginali, ma soprattutto, con sempre minor attenzione, volontà e determinazione di realizzare il progetto.

Nel 1932 – scrive Sepulveda riportando il ricordo di Allende – in Cile ci fu una rivoluzione che durò soltanto 12 giorni, la “Republica Socialista de Chile”. Il leader, Marmaduke Grove, un militare, ufficiale dell’aeronautica, scrisse un programma politico incentrato sul raggiungimento della felicità. Non individuale ma collettiva. Non di pochi ma di tutto il popolo. In quei 12 giorni furono istituiti gruppi di lavoro in uno sforzo corale e comune mirato a capire quali fossero gli ostacoli che si frapponevano al raggiungimento di uno stato della qualità della vita collettiva sempre auspicato dal genere umano ma mai realizzato. Che cosa ci impedisce di essere felici tutti, presi nel nostro insieme? La sperimentazione di Grove finì presto e nel sangue. Ma quell’idea, quel progetto forse utopistico ma sicuramente suggestivo ed emozionante, aveva colpito il cuore di molti cileni. Il tredicesimo giorno la rivoluzione socialista fu stroncata duramente ed è difficile oggi trovarne traccia nella letteratura cilena.

L’altro episodio menzionato da Allende capitò due anni dopo, nella caotica Spagna ormai sull’orlo della guerra civile. Nelle Asturie, attraverso un miracoloso accordo politico tra comunisti, socialisti e anarchici (un precedente rarissimo nella storia recente della sinistra mondiale) si misero le basi per una vera e propria rivoluzione. Vi parteciparono pescatori, minatori, contadini, insegnanti, operai, tutti insieme appassionatamente per liberarsi dal giogo capitalista e sfruttatore. All’articolo 1 del Manifesto di quella rivoluzione asturiana c’era scritto un principio che richiamava l’esperimento di due anni prima di Marmaduke Grove, in Cile: “Il fine naturale dell’uomo è la felicità!”.

Si cercò di nuovo di approfondire gli ostacoli che impedivano tale finalità alta e condivisa. Si studiò il problema spacchettandolo e analizzandolo da punti di vista diversi, a volte opposti. Si arrivò alla conclusione, pericolosissima per l’establishment politico spagnolo del governo centrale di Madrid, che il sogno era realizzabile, che la felicità individuale e collettiva era raggiungibile, bastava volerlo e bastava che le classi dominanti non si schierassero miopiamente contro. Appunto! Quando la sperimentazione asturiana rischiò di innescare un’onda lunga di speranze e di sogni, Madrid mandò sul posto l’esercito con le precise istruzioni di stroncare sul nascere quel tentativo utopico di società felice. A comandare la repressione fu designato il futuro dittatore spagnolo, il generale Francisco Franco, un’evidente figura non “in linea” con il Manifesto della rivoluzione asturiana.

I due episodi, durati troppo poco per vederne i risultati concreti della tentata sperimentazione, lasciarono però il segno nelle menti più liberali e visionarie. La felicità può essere un diritto e promuoverla è lecito e virtuoso. Il nodo fondamentale è individuare quali siano gli elementi che si frappongono tra gli esseri umani e la sua realizzazione, impedendone il raggiungimento.

Pickett è convinto che in un mondo in cui stanno “saltando” tutte le categorie concettuali che hanno segnato il secolo scorso (quelle a cui ci siamo ispirati e siamo stati educati per convivere insieme possibilmente senza guerre e conflitti sociali, religiosi e raziali) bisognerebbe riprendere in mano anche le esperienze raccontate da Allende a Sepulveda. Se siamo alle soglie di una nuova rivoluzione, quella della Intelligenza Artificiale, con da un lato la costruzione di robot che ci faciliteranno la vita e dall’altro gli stessi robot che ci toglieranno lavoro, serenità e sicurezza, allora torniamo a porci una domanda semplice semplice, forse a prima vista anche banale: “Vivere per qualcosa … ma cosa?”. Un’automazione sempre più forsennata, dominata da pochi “esperti” con le masse sempre più longeve ma anche più marginali e frustrate? Oppure una convivenza improntata su un progresso gestito ma non subito con una qualità della vita di tutti più adeguata e figlia di una migliore e più efficiente redistribuzione dei redditi prodotti? In una società quindi più giusta, forse, e rieccoci di nuovo al tema rilanciato da Sepulveda/ Allende, più felice e coesa? E allora perché non mettere mano per esempio a quelli che sono i criteri di costruzione del fantomatico PIL, il totem, testimone della ricchezza o meno di un paese? Perché non introdurre dei criteri non soltanto economici ma anche qualitativi, legati alla felicità delle varie comunità coinvolte?

E allora proprio Sepulveda, in un passaggio centrale del suo nuovo libro, ci invita a ritornare a leggere il Manifesto di un altro grande leader del secolo scorso, un liberal vero, in senso moderno e virtuoso: Franklin Delano Roosevelt. In uno dei suoi indimenticabili discorsi settimanali alla radio rivolti a tutti gli americani, il Presidente degli Stati Uniti citò un modello di società a cui ispirarsi, basato su quattro libertà fondamentali: la libertà di espressione; la libertà di pensiero; la libertà dalla miseria; la libertà dalla paura.

Pickett condivide il pensiero di Sepulveda: probabilmente gli ostacoli che ci separano da una vera felicità collettiva risiedono proprio nel non avveramento/riconoscimento/consapevolezza del contenuto profondo di queste quattro tipologie di libertà.

E allora perché non ripartire di lì se … ci crediamo?

 

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