Tra negazionisti, cittadini insubordinati, virologi “gaffeur”, esseri umani gaglioffi ed irresponsabili, abbiamo voluto prenderci una pausa.

Un momento di verità.

Tragica.

Scioccante.

Senza commenti.

Vi trascriviamo una lettera della dottoressa Dafne Pisani, trentaquattro anni, medico-rianimatore del Centro di Terapia Intensiva Covid “De Blasi” del Policlinico di Bari.

Una testimonianza che viene dall’inferno dei nostri ospedali e che ci auguriamo ci renda consapevoli della tragedia che sta vivendo il nostro sistema sanitario, tenuto in piedi soltanto grazie ai suoi fantastici operatori.

Ecco le parole di Dafne.

Ecco la sua fotografia di quella che per alcuni è una montatura politica e mediatica; per altri, addirittura, una messa in scena esagerata.

Se non avete pietà di voi stessi, almeno abbiate pietà dei vostri figli. E abbiate pietà di noi, di me e dei miei colleghi. Non credo ci siano parole che possano spiegare realmente cosa significhi lavorare in terapia intensiva, in questi mesi, con lo scafandro (la tuta da astronauta) e la paura costante di passare dall’altra parte perché sei vulnerabile come quell’individuo cui stai prestando le tue cure. Quando si apre quella porta del filtro per passare oltre, sarebbe istintivo scappare e invece devi essere più forte, spingere e passare oltre, nell’inferno. Non si può descrivere come ci si senta, in apnea, le labbra umide e la gola secca, con il tuo stesso alito caldo che appanna il casco protettivo sanificato. Né si può spiegare il dolore dei tiranti della maschera o il bruciore del casco sui capelli raccolti. E poi la vestizione: rimani in canotta grondante di sudore e devi attraversare interi reparti al freddo notturno prima di tornare nel “pulito” per rivestirti: non c’è posto per lasciare pantaloni e felpa, dove la metti? E’ tutto sporco, tutto sporco di SARSCOV2!

Come si possono descrivere le telefonate di figli dei pazienti che ti riconoscono dalla voce, che ti dicono che il padre quando era sveglio ha chiesto di te e ti chiamano per nome. Cerco di sforzarmi ma, credetemi, non ci riesco, ci provo, ma no non si può spiegare, è un gomitolo di pensieri, un gigante boccone di ansie da ingoiare perché hai davanti pazienti, hai davanti corpi esanimi, adagiati su letti sempre più piccoli. Ci sono telefoni che squillano continuamente, cartoni pieni di farmaci, flebo, decine di allarmi di ventilatori che lampeggiano, maschere che sfiatano, cartelle cliniche da compilare, ci sono i parenti. E ci sono loro, i nostri pazienti. Occhi imploranti che ti chiedono come vanno quei numeri luminosi sui monitor. Non so dove si trovino le parole per spiegare questo: non era previsto da nessun manuale di medicina cosa rispondere! E allora sarebbe il caso di tacere, tacere tutti”.

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