Mentre stiamo commentando i risultati del primo turno delle elezioni amministrative, mi permetto un pensiero collaterale, apparentemente fuori luogo, lontano dalla stretta attualità emersa dai risultati elettorali.

L’astensionismo che ha raggiunto percentuali rilevanti, mai registrate in grandi città come Bologna, Milano e Torino, mi spinge ad una riflessione più ampia.

Proprio un anno fa, il 20 settembre 2020, in piena pandemia, eravamo stati chiamati alle urne per esprimere il nostro voto sul referendum promosso dai grillini sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Il risultato era stato netto e, in un Paese normale, ci si aspettava che il Parlamento avrebbe immediatamente messo le mani su quella benedetta riforma elettorale di cui si parla da anni senza risultati.

Proprio l’esito di quel referendum, come sottolineato anche dalla Corte Costituzionale, imponeva ai nostri parlamentari di riscrivere la legge elettorale per evitare dei “buchi” di dubbia costituzionalità, conseguenti proprio all’approvazione della legge oggetto di quel referendum.

La Corte aveva più volte evidenziato la necessità di questi interventi legislativi in mancanza dei quali sarebbe stato difficile andare alle urne con un modello elettorale zoppo, contraddittorio e “figlio” di troppi interventi non coordinati e non scritti nell’ambito di un disegno strategico condiviso.

Nonostante ciò, non è accaduto nulla!

La seconda ondata della pandemia, la caduta del secondo governo Conte, l’incarico al governo Draghi, la programmazione del piano di vaccinazione nazionale, la scrittura e poi approvazione del PNRR, hanno occupato l’attualità politica, relegando ancora una volta la riforma elettorale ai margini del dibattito: insomma, al di là delle promesse e delle necessità giuridiche, questo Parlamento, ancora una volta, ha “disertato” il suo impegno a risolvere questo tema prioritario per la nostra democrazia.

Un vulnus che, a mio parere, sta impedendo il normale svolgimento della gestione della nostra democrazia, “bloccata” dall’impossibilità di andare alle elezioni politiche in assenza di uno strumento idoneo alla sua regolamentazione.

La scadenza naturale del 2023 si avvicina e sarebbe davvero surreale se ci ritrovassimo alla vigilia di quel voto con un Parlamento che non ancora è riuscito a scrivere questa benedetta riforma.

Ma non basta!

Anche in altre, importantissime, materie, il nostro Parlamento latita: discute, con un andamento ondulatorio riempie le prime pagine dei giornali senza mai arrivare però al voto decisivo.

Sto parlando di alcune materie che toccano i nostri diritti civili prioritari come l’eutanasia, la liberalizzazione delle droghe leggere, le adozioni tra coppie omosessuali.

Per ora il sistema ha retto grazie alla magistratura che sta svolgendo un’opera di supplenza con un continuo stimolo al potere legislativo di fare il suo mestiere.

Questa situazione non è più sopportabile anche perché sappiamo bene che quando la magistratura supplisce strutturalmente e con continuità a carenze del legislatore, spesso, non sempre, le conseguenze non sono virtuose e nascono dei problemi e delle criticità giuridiche ed etiche molto pericolose.

Questa latitanza del nostro Parlamento ha riattivato le forme referendarie, tra l’altro agevolate dalla possibilità di una raccolta delle firme on line, molto facilitata.

Si sta parlando di una riforma anche dell’istituto del referendum che ormai presenta una soglia (500 mila adesioni) troppo facile da raggiungere come dimostrano le recenti campagne per l’eutanasia o per la legalizzazione sulla cannabis.

D’altronde, se il Parlamento è sordo, su certi temi si muovono direttamente i cittadini per supplire a tale vuoto normativo.

Il rischio come scriveva molti anni fa Stefano Rodotà, è quello di trasformare una democrazia rappresentativa in una democrazia “dell’immediatezza telematica”.

La rivoluzione tecnologica e digitale in corso ha reso inevitabile l’accettazione delle firme raccolte on line che rende più facile l’innesco della procedura per chiedere i referendum ma rischia di alterare il delicatissimo equilibrio tra una democrazia rappresentativa e una democrazia partecipativa.

Si rischia inoltre – come ha scritto recentemente il prof. Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma – di ingolfare la Corte Costituzionale di richieste su questioni minori o, peggio, su temi controversi, creando così un collo di bottiglia che penalizzerebbe anche i referendum più importanti”.

Insomma, il tema di una rivisitazione della norma sui referendum rientra di nuovo nella riflessione iniziale: toccherebbe al Parlamento occuparsene subito e in maniera efficiente e coordinata con i principi generali dell’ordinamento.

Ma siamo tornati da capo.

L’astensionismo, ormai allarmante (con una aliquota di votanti inferiore al 50% molte ed importanti città italiane ma un domani l’intero Paese, potrebbero essere governate da una maggioranza del 25% degli aventi diritto al voto: dunque una forte minoranza governerebbe una larga maggioranza “silenziosa”), dovrebbe dare una veglia ai nostri parlamentari: così non si può andare avanti e il Parlamento deve dare risposte pronte e adeguate alle priorità del Paese.

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