Il titolo potrebbe sembrare una pura provocazione intellettuale. In parte lo è probabilmente: ma dentro ci sono “pezzi” di verità che Pickett vi mette sul tavolo per un confronto più ampio, più rilevante, più immerso nella complessità anche pericolosa che stiamo vivendo. Il tema della insopportabile e pericolosissima diseguaglianza che sta dilagando in tutto il mondo e che, se non risolta o almeno ridotta, potrebbe portarci a vivere periodi rivoluzionari densi di incubi per le nostre democrazie.
Ma torniamo ai nostri due personaggi del titolo. L’associazione non è casuale. Pickett sta leggendo “Marx vivo o morto?” un libro a cura di Antonio Carioti (Edizioni Solferino) uscito in occasione dell’anniversario della nascita di Karl Marx (5 maggio 1818). Un’opera collettiva che rivisita la vita, le opere, il ruolo e, soprattutto, l’attualità di un pensatore che, settant’anni dopo la sua morte (1883), avrebbe visto le sue idee divenire le linee guida della politica economica di oltre 1/3 dell’umanità governata da regimi guidati da partiti comunisti che affermavano di rappresentare le sue idee e di realizzare le sue aspirazioni. “Nessun pensatore, nessun intellettuale ebbe sulle vicende economiche, sociali e politiche della storia moderna, una influenza pari a quella di Marx” scrive Michele Salvati nel suo contributo intitolato “Il capitalismo soffre ma ha la pelle dura”.
Ebbene, tale lettura, sempre stimolante anche con percorsi politici e culturali molto diversi da Marx, mi ha fatto fare un’associazione forte, provocatoria, forse per alcuni addirittura irricevibile. Ma io l’ho fatta e vi racconto le ragioni.
Fin dal 2013 (sono passati solo 5 anni ma sembrano un’eternità) Pickett ha seguito il pensiero e gli scritti del giovane professore francese universitario di economia di 46 anni: Thomas Piketty appunto. Cinque anni fa l’uscita del libro “Il capitale nel XXI secolo” mi colpì per il merito e il metodo nella narrazione. Non ci trovavamo di fronte al solito economista che cercava di leggere le cause della crisi proponendo ricette più o meno velleitarie. Venivamo invece richiamati tutti ad una realtà ben diversa: più traumatizzante. Una realtà decodificata da un visionario politicaly uncorrect che fotografava, con uno stile più semplice e divulgativo di molti suoi colleghi universitari, con spietato cinismo, le ragioni del nostro contesto economico drammatico. Anzi, per meglio dire, la ragione centrale di tale dissesto: l’aumento delle diseguaglianze. Il suo ragionamento, in sintesi, era il seguente: il tasso di rendimento del capitale è stato nei paesi sviluppati sempre maggiore del tasso di crescita economico. Questo ha portato e porterà ancora nei prossimi anni sempre più diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e nella disponibilità dei beni e servizi. Come rimediare? Secondo Piketty ci sarebbe voluta subito l’introduzione di una tassa globale sulla ricchezza! In caso contrario, la situazione sarebbe peggiorata portandosi dietro rivoluzioni politiche e sociali. La “tempesta perfetta” scoppiò proprio due anni dopo, con la Brexit, l’elezione di Trump, la vittoria del populismo in molti paesi del mondo, l’affermazione di coloro che erano “contro” le élite che si erano arricchite e non avevano più pensato agli “altri”, proprio a quelli che li avevano eletti.
Piketty ha continuato a fustigare le classi dirigenti europee e, oggi, replica le sue tesi con il nuovo saggio intitolato “Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality and the Changing Structure of Political Conflict” (reperibile sul sito www.piketty.pse.ens.fr). Utilizzando, non a caso, la nomenclatura tipica delle caste Indù, il professore francese introduce una serie di ragionamenti che ci aiutano a capire come, se non interveniamo “presto e in modo specifico” sulle diseguaglianze, rischiamo sempre di più una situazione mondiale esplosiva, prodromica allo scoppio di nuovi conflitti militari devastanti. Vediamo il contenuto delle tesi espresse da Piketty nel suo ultimo libro.
Le categorie di destra e sinistra non esistono più. Anzi, gli elettorati si sono invertiti.
L’attuale conflitto tra la borghesia che ormai vota a sinistra e la protesta popolare contro le élite, il cosiddetto populismo, ha radici lontane. Secondo Piketty nel dopoguerra a votare a sinistra erano innanzitutto i poveri: era quella modalità di espressione delle proprie speranze che alcuni chiamavano lotta di classe. Nei decenni successivi l’elettorato di sinistra ha acquistato via via peso sino a presidiare il livello dell’istruzione e della cultura in diversi importanti paesi dell’Unione Europea. Alla destra rimaneva invece il classico conservatorismo di chi possiede la ricchezza, a livello di reddito personale molto alti, si occupa più di business che non di cose pubbliche o di pubblica utilità. Si sono dunque create, sempre secondo la narrazione del giovane economista francese, due élite rivali: una di censo e l’altra culturale. Di qui l’utilizzo della nomenclatura indiana dei mercanti e dei bramini. Il momento di svolta per Piketty è quello in cui il 10% più istruito della popolazione comincia a votare più a sinistra del restante 90%. Nel suo ultimo libro che è una miniera di informazioni raccolte in tutte le banche dati del mondo, sostiene che gli Stati Uniti e la Francia hanno varcato quel momento intorno alla metà degli anni ’60. La Gran Bretagna invece una ventina d’anni più tardi. Dunque ben prima della globalizzazione e del tragico problema dei flussi migratori. Questi due fenomeni hanno accelerato il trend esistente. Oggi siamo di fronte ad una vera e propria spaccatura tra chi sostiene l’apertura al mondo e chi invece vorrebbe ripiegare sulle identità e sulla sovranità nazionale. Piketty ci offre alcuni esempi: negli Stati Uniti vota per il Partito Democratico il 51% di chi ha una laurea breve, il 70% dei laureati ordinari e il 75% di quelli con diploma di terzo ciclo. Nell’immediato dopoguerra erano, tutti insieme, il 20% del totale.
In Francia nel dopoguerra votavano a sinistra il 38% dei laureati, il 50% degli aventi licenza elementare: oggi al contrario il 60% i primi, il 45% i secondi.
Come mai oggi il tema delle diseguaglianze nei paesi avanzati non è una delle priorità delle élite al governo? si interroga Piketty. Oggi appena il 51% dei francesi ritiene che lo Stato dovrebbe tassare i ricchi per redistribuire ricchezza ai poveri: 15 anni fa erano il 63%. L’azione dello Stato, se guidato dalla sinistra, può apparire vantaggiosa solo ad una differente élite. Proprio da questa fotografia nasce il populismo. Il 51% dei francesi ostili ai cosiddetti ricchi vota la destra di Marine Le Pen. In Italia Piketty prende ad esempio la politica dell’istruzione per dimostrare come tutti i governi a guida PD abbiano assunto nel tempo diverse posizioni sempre in un tentativo fallito di coniugare/premiare il merito e l’iniziativa privata rispetto all’uguaglianza: prima con la “Buona scuola” si è promesso di incentivare i migliori, poi per contrastare la perdita di consensi, si è scelto di nominare ministro una ex sindacalista più vicina culturalmente alle aspettative dei “tanti”. Piketty conclude i suoi ragionamenti suggerendo una nuova sintesi da ricercare tra egualitarismo e internazionalismo. I vecchi slogan della sinistra tradizionale non attecchiscono più e i risultati elettorali lo dimostrano ampiamente in più paesi europei.
Proprio alla luce dei pensieri sviluppati da Thomas Piketty mi è nata la provocazione iniziale. Piketty è il Marx del III millennio?
Secondo Michele Salvati le tre ragioni del successo delle teorie di Karl Marx sono state le seguenti. La prima: un profondo umanesimo. “Esso si  manifesta soprattutto nella indignazione che percorre tutti i suoi scritti per le conseguenze della rivoluzione capitalistico-industriale sulle facoltà e le aspirazioni dell’uomo: l’alienazione, lo sfruttamento, il lavoratore ridotto a forza lavoro, ad un pezzo del capitale”. Il secondo è la sua visione della storia, il cosiddetto “materialismo storico”: “L’idea che il progresso nella divisione del lavoro e nel controllo della natura si era manifestato in passato all’interno di “modi di produzione” diversi e che il capitalismo sarebbe caduto vittima del contrasto fra forze produttive che progredivano senza sosta e modi di produzione che frenavano questo progresso e il modo di produzione che si sarebbe instaurato –  il socialismo e poi il comunismo – avrebbe eliminato gli aspetti odiosi che Marx denunciava nel capitalismo”.
La terza ragione del successo del pensiero marxista, sempre secondo Salvati, consiste “nella profondità e nell’ampiezza dell’analisi in esso contenuta.
Dunque in sintesi (i) una forte presa d’atto delle sofferenze e della mortificazione delle capacità umane che il capitalismo infliggeva; (ii) la speranza che queste potessero avere fine attraverso una nuova e diversa organizzazione del modello dell’economia, della società e della politica; (iii) la convinzione diffusa e riconosciuta che l’analisi teorica era fondata, seria ed affidabile, in altre parole, la migliore in allora disponibile.
Oggi la diseguaglianza è la priorità da risolvere. Piketty lo ha detto, lo ha scritto, lo ha documentato ed è andato anche oltre: ha individuato delle azioni possibili per ridurla evitando guai più seri.
Certo, tra i due pensatori ci sono differenze culturali, di formazione e di contesto economico, sociale e politico rilevanti. Marx (o meglio i marxisti) è un rivoluzionario, Piketty un “riparatore” secondo la suggestiva denominazione coniata da Salvati a proposito del ruolo avuto nei secoli dai riformatori rispetto ai rivoluzionari. Il francese lavora “dentro” il capitalismo per farlo ancora una volta risorgere alla grande. Marx voleva distruggerlo immaginando una società che tenesse conto dei contributi dei più talentuosi ma che poi restituisse solo ed esclusivamente secondo i bisogni. Non i desideri, le ambizioni, i sogni: solo i bisogni. Così, scriveva Marx, la nuova comunità comunista avrebbe combattuto le avidità, le miopie, le speculazioni insite nella natura umana.
Eugenio Scalfari ha toccato recentemente proprio questo tema sull’Espresso nella sua rubrica “Il vetro soffiato” “Gli istinti, come sappiamo, sono le caratteristiche fondamentali di tutte le specie viventi, in particolare quelli propri della specie nostra. Noi siamo dominati dall’istinto di sopravvivenza il che implica che ciascuno di noi vuole diventare sempre più forte e potente, quale che sia la condizione sociale nella quale è nato e vive. La forza di questo istinto fa nascere contrasti, lotte, guerre ma anche alleanze e amicizie. Così si svolge a vari livelli la nostra vita ed emerge da quell’istinto anche il bisogno di soddisfare alcuni desideri. Il desiderio non è un bisogno ma qualche cosa di più: una aspirazione che l’istinto non sente ma il desiderio sì e proviene da una questione di fondo che ci contraddistingue dalle altre specie: l’Io che dà a ciascuno di noi un bisogno suppletivo che accresce la nostra tendenza ad allargare il cerchio dei bisogno aggiungendovi quello dei desideri. L’Io è il depositario dell’istinto di sopravvivenza e lo soddisfa appunto con la conquista di quanto è necessario per soddisfare l’istinto di sopravvivenza: il bisogno di cibo, la conquista di territorio, la sconfitta di chi vi si oppone con analoghi e contrastanti bisogni e desideri. Di qui lotte e collaborazioni, odio e amicizia, guerra e pace, odio e amore, libertà e schiavitù. Questo è l’uomo, questa la nostra specie da quando l’uomo nacque con gli istinti che abbiamo segnalato”.
Ho riportato il pensiero di Scalfari perché ritengo che stia proprio lì la differenza fra un pensiero come quello marxista rispetto a quello liberale-capitalistico. Il primo non tiene conto della natura umana e dà vita ad una filosofia utopica che, quando cerca di costruire dei modelli economici di convivenza tra gli esseri umani, dà vita a regimi necessariamente dittatoriali proprio a causa della difficoltà di ottenere un consenso generalizzato su principi di uguaglianza che contrastano non con i bisogni degli uomini, ma probabilmente con i loro desideri ulteriori.
Piketty invece, come detto, sta “dentro” il modello capitalistico. Ha radici culturali e filosofiche analoghe a quelle sintetizzate da Scalfari. Lavora all’interno di un modello cercando di migliorarlo e proponendo soluzioni per combattere l’attuale nemico numero uno: l’eccesso di concentrazione di ricchezze in mano a troppo pochi individui. Immagina interventi come: “1.Investimenti pubblici in scuole di alta qualità e in infrastrutture adeguate per tutti; 2. Università pubbliche gratuite e istruzione tecnica di alta qualità per tutti; 3. Un sistema sanitario pubblico per tutti; 4. Imposte più elevate sui ricchi allo scopo di finanziare queste maggiori spese; 5. Usare l’Antitrust per spezzare i grandi monopoli (Big Tech, Big Pharma, ecc.); 6. Eliminare la Big Money dalla politica, i finanziamenti dei ricchi e delle grandi imprese”. Un programma sostanzialmente analogo a quello attualmente proposto dai democratici americani nell’era Trump.
Qui sta il punto centrale delle differenze tra i due pensatori, ma è indubbio che per consapevolezza delle sofferenze umane, conoscenza di nuove modalità di coesione e capacità di analisi approfondita del contesto in cui viviamo, Thomas Piketty si candida ad essere un “riparatore” del capitalismo da ascoltare e da cercare di tradurre in pratica.

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