Mario Draghi ha aperto le danze dichiarando, a fine luglio, di condividere il concetto posto a fondamento del Reddito di Cittadinanza che, però, necessita di una rivisitazione dei suoi meccanismi di funzionamento.

Da quell’affermazione del nostro Presidente del Consiglio si è scatenato il dibattito sotto diversi profili: politico, economico e anche, perché no, come vedremo, lessicale.

Il Reddito di Cittadinanza costituisce infatti la bandiera del Movimento 5 Stelle (tutti ci ricordiamo l’attuale Ministro degli Esteri Di Maio, affacciato sul balcone di Palazzo Chigi che dichiarava con un sorriso smagliante “oggi abbiamo sconfitto la povertà”): dunque qualsiasi ipotesi di sua abolizione troverà sempre, a prescindere dal merito delle ragioni, la sua opposizione. Non per niente Matteo Renzi ha avviato la raccolta delle firme per un referendum abrogativo di tale norma!

Bisogna dunque verificare se esistano, dal punto di vista del merito, delle soluzioni per modificare l’attuale testo della norma, continuando a mantenerne il nome e il modello.

Dal punto di vista economico la misura costa oltre 8 miliardi di euro all’anno – 700 milioni al mese – ed è stata rifinanziata con 4 miliardi aggiuntivi di qui al 2029, proprio dall’ultima legge finanziaria. La stima della spesa, a quella data, potrebbe portare l’ammontare a sfiorare i 40 miliardi di euro.

Visti i risultati ottenuti, vale veramente la pena destinare un tale ammontare di finanza pubblica a tale strumento?

Poi c’è una terza questione, apparentemente surreale, ma che si collega a quanto già detto a proposito del profilo politico: per ottenere il consenso ad una modifica della norma, con le attuali maggioranze esistenti in Parlamento, bisogna probabilmente continuare a chiamarlo Reddito di Cittadinanza, anche se rivista nel suo contenuto operativo.

Il dibattito politico in questi giorni di ripresa dei lavori, ma anche di campagna elettorale e quindi di propaganda, è concentrato su questo tema che è divenuto una priorità anche alla luce della contaminazione negativa del post pandemia che ha segnato un aumento rilevante della percentuale di popolazione italiana sotto i livelli di povertà. Questa ormai ricomprende oltre 5,5 milioni di italiani, pari a circa 2 milioni di famiglie, secondo gli ultimi dati Istat.

Prima di individuare i punti della norma che necessiterebbero di una modifica, proprio alla luce degli esiti in parte fallimentari dei primi anni di applicazione, è necessario sgombrare il campo da una possibile confusione che inquina il dibattito tra gli addetti ai lavori.

Ci siamo convinti che considerare la norma che ha istituito il Reddito di Cittadinanza come uno strumento anche di politiche attive del lavoro sia sbagliato e comunque confusorio.

Gli ultimi dati del rapporto annuale dell’Inps spiegano che chi riceve il Reddito di Cittadinanza (1,6 milioni di nuclei famigliari, pari a circa 3,7 milioni di cittadini italiani) è nella stragrande maggioranza dei casi fuori dal mercato del lavoro. Un gran numero di beneficiari del reddito minimo è costituito da minori, disabili, persone con fragilità fisiche o psichiche che non percepiscono pensioni di invalidità. Tra i beneficiari ci sono anche 200 mila cittadini percettori della pensione di cittadinanza. Lo stesso Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di designazione grillina, ha dovuto ammettere che la misura è stata, in questi primi anni di applicazione, nella sostanza uno strumento di inclusione sociale, una leva per arginare la regressione dei livelli della povertà assoluta nel nostro Paese. Probabilmente in questo specifico settore di intervento (il sostegno) il Reddito di Cittadinanza non ha fallito la sua missione, limitando tra l’altro gli effetti disastrosi, dal punto di vista sociale ed economico, prodotti dal coronavirus.

Il Reddito di Cittadinanza però, non è una misura di politiche attive del lavoro e dunque non va giudicata secondo questo parametro.

Su questo punto bisogna essere molto chiari proprio nel momento in cui il Ministro Orlando sta per chiudere i lavori della Commissione di esperti incaricata di rivisitare i dettagli normativi ma anche operativi della misura.

Le politiche attive del lavoro devono essere trattate all’interno di una normativa diversa che articoli degli interventi che favoriscano la formazione di soggetti disoccupati o mai occupati, aiutandoli a trovare un nuovo posto di lavoro in un mondo che sta subendo una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche e organizzative della storia dell’umanità.

Tornando al Reddito di Cittadinanza, bisogna quindi concentrare le modifiche agli ambiti in cui si sono evidenziate le debolezze della misura di sostegno. Nell’ultimo rapporto della Caritas si spiega molto bene come il Reddito di Cittadinanza in alcune aree del Paese, non copra fasce importanti di popolazione in difficoltà. Bisogna, dunque, modificare i criteri di accesso che oggi sono diversi da quelli che determinano lo stato di povertà assoluta. Non si può non tenere conto, proprio nei criteri di accesso, ad elementi importanti come il diverso costo della vita tra nord e sud o la diversa incidenza di lavoratori di origine straniera nelle varie regioni italiane. Naturalmente bisogna anche rinforzare gli organi di controllo sull’accesso al sostegno da parte di soggetti non legittimati o peggio già condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione o per evasione fiscale. Definito il perimetro delle modifiche relative al Reddito di Cittadinanza bisogna poi che il Governo si concentri su un rilancio, grazie anche agli ingenti fondi europeri in arrivo, delle politiche attive del lavoro, con incentivi agli investimenti privati, alla fiscalità (come la riduzione del cuneo fiscale), alla riforma dei Centri per l’Impiego che hanno prodotto risultati fallimentari negli ultimi anni.

Bisogna anche cercare di dare una risposta concreta e costruttiva alla lamentela che giunge da molti imprenditori che lamentano di non trovare risorse lavorative perché molti possibili candidati preferiscono il Reddito di Cittadinanza all’andare a lavorare.

Al di là di una banale constatazione che riguarda il livello salariale proposto a tali risorse lavorative (se, come accade in diversi casi, è inferiore al reddito di sostegno, perché dovrei rinunciare ad una garanzia contro uno stipendio più ridotto e più a rischio?) bisogna correggere queste distorsioni attraverso una più puntuale definizione delle condizioni e delle sanzioni per i percettori del Reddito di Cittadinanza che rifiutano le offerte, introducendo anche ulteriori incentivi ad accettare il lavoro.

In ogni caso, e bisogna, che questo punto sia condiviso culturalmente oltre che politicamente dalla nostra classe dirigente partitica e imprenditoriale, il rilancio del nostro sistema economico sarà l’unica, vera medicina che possa ridare speranza di nuovi posti di lavoro nell’ambito della trasformazione ecologica e digitale del nostro modello.

D’altronde questa non è una novità per il nostro Paese. Proprio 10 anni fa, nell’agosto del 2011, Mario Draghi sottoscrisse con Jean-Claude Trichet la famosa lettera (resa poi pubblica soltanto a fine settembre 2011) con la quale la Banca Centrale Europea dettava al Governo Berlusconi gli indirizzi di politica economica, necessari per evitare il commissariamento. In quella lettera si parlava proprio di una necessaria e non dilazionabile (sig!) riforma delle politiche attive per il lavoro. Intendendosi con tale definizione quelle misure in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

Una definizione e quindi una interpretazione ben diversa dai razionali posti a fondamento del Reddito di Cittadinanza.

Si distingua dunque la necessità del mantenimento di un sostegno a favore della povertà con l’attivazione di nuove politiche del lavoro mirate all’aumento dell’occupazione e alla formazione degli addetti sulle nuove tipologie di lavoro originate dalla trasformazione ecologica e digitale in corso.

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