Siamo abituati ad assistere, con cadenza trimestrale, ad un bizzarro e a volte avvilente dibattito sulla più o meno grave “mancanza di crescita” dei paesi dell’area Euro. In questo confronto l’Italia ha il triste primato di essere la nazione che cresce meno con un contorno di un dibattito politico che si scatena soltanto addebitando alla controparte le ragioni di una crescita minimale sempre, drammaticamente misurabile in termini di 0,1%, 0,2% e dintorni.

Al di là di questo frustrante contesto politico ma anche informativo, siamo davvero convinti che il criterio del Prodotto Nazionale Lordo (il cosiddetto PIL) sia ancora il misuratore più idoneo per fotografare il buono o cattivo andamento di un paese e soprattutto la soddisfazione dei suoi abitanti? Pickett ricorda bene che questo tipo di dubbio affiorava già oltre 15 anni fa in molti paesi d’Europa dove alcuni isolati leader visionari si ponevano il problema se le aride cifre di aumento della produzione e vendita di certi beni e servizi potessero costituire ancora il termometro del consenso che una certa comunità di cittadini in un certo stato manifestasse nei confronti delle classi dirigenti politiche o del sistema economico finanziario internazionale. Tali posizioni filosofiche furono sempre tenute lontano dai salotti della politica e dell’economia, tacciate di velleitarismo non virtuoso. Poi la crisi del 2007 che, non dimentichiamolo, compie quest’anno 10 anni … ahinoi, ha drammaticamente fatto esplodere il problema della non crescita dei paesi cosiddetti sviluppati con tutte le conseguenze in termini di occupazione, impossibilità di sanare i debiti pregressi, rischio di bancarotta di molte nazioni considerate soltanto fino a qualche anno prima assolutamente competitive, capienti e solvibili. La crisi ha comportato poi un ulteriore e tragico elemento negativo: l’insicurezza dei cittadini nei confronti del loro futuro, l’angoscia delle nuove generazioni di non trovare più uno sbocco lavorativo al termine del loro percorso scolastico. Insomma si è ingenerato un circuito perverso che a fronte di dati di macro economia negativi, sviluppava un vortice senza fine di disillusioni, pessimismo, mancanza di speranze, insomma paure generalizzate e difficilmente gestibili. Tutto ciò ha avuto le conseguenze a livello politico che sono sotto i nostri occhi: instabilità, sorgere di movimenti cosiddetti populisti che al di là del non porsi tematiche di come uscire da una crisi non transitoria ma ormai di sistema, si sono limitati a raccogliere i malesseri di molti cittadini urlando nelle varie campagne elettorali slogan “contro” senza alcun reale progetto né riformatore né rivoluzionario. Se a ciò aggiungiamo che le crisi economiche accelerano l’aumento della forbice tra ricchi e poveri in tutto il mondo, peggiorando ancora, se possibile, una già iniqua redistribuzione delle risorse esistenti, possiamo capire la delicatezza del quadro odierno e prospettico del nostro povero pianeta.

Proprio in queste ore è stato diffuso un dato statistico che riguarda direttamente il nostro Paese. Nel 2014 l’1.2% degli italiani deteneva il 64,6% della ricchezza totale del Paese. Un quadro drammatico di una disuguaglianza tra ricchi e poveri che crea disagio e malessere. Le ragioni? Demografiche e finanziarie: la popolazione del nostro Paese invecchia e la ricchezza si concentra ovviamente tra le persone con una anagrafe datata. In più l’andamento della Borsa ha favorito guadagni finanziari rilevanti. Ma il dato ancora più allarmante è quello relativo alle conseguenze di tale situazione: sul fronte degli impieghi tale ricchezza concentrata nelle mani di pochi e in più di età avanzata viene prevalentemente investita in prodotti finanziari sicuri dove l’alea di rischio è molto ridotta. Il sistema creditizio ha di conseguenza meno disponibilità di risorse destinate a finanziare investimenti industriali mirati ad aumentare i posti di lavoro. Un circolo vizioso negativo che produce, come detto, malessere, disagio, angosce prospettiche.

Le “sorprese” elettorali che nell’ultimo anno hanno scandito il palinsesto della politica internazionale (da Brexit a Trump per citare soltanto i casi più clamorosi), sono la dimostrazione, a parere di Pickett, di ormai un grande distacco che regna tra la casta della politica e i bisogno e i malesseri della popolazione dei singoli stati.

Ecco allora tornare di attualità il tema dell’individuazione di strumenti idonei a misurare realmente lo stato di soddisfazione o insoddisfazione di un certo paese basandosi non soltanto su dati di macroeconomia con il focus sulla crescita, ma tenendo conto anche della felicità o delle paure delle comunità di esseri umani che in quel paese ci vivono, fanno figli, li educano sperando in un futuro di sicurezze occupazionali e di vita dignitosa. Ecco dunque tornare ad aprirsi il dibattito tra i favorevoli al mantenimento dello status quo e i cosiddetti NO PIL e cioè quel filone di pensiero che ritiene di dover mettere le mani sul paniere di elementi che contribuiscono a costruire degli indicatori reali sullo stato di salute delle varie nazioni del villaggio globale.

 

Quando e come nacque il PIL?

Il criterio di utilizzare uno strumento per valutare in maniera uniforme e oggettiva la “temperatura” dei vari paesi nacque nel 1944 quando gli alleati avevano iniziato a porsi il problema della governance del dopo guerra. Ormai la vittoria sul nazi-fascismo e sui giapponesi era certa. Non si sapeva in quanto tempo si sarebbe potuto scrivere la parola fine sulla drammatica evoluzione della II Guerra Mondiale, ma nessuno più dubitava sull’esito del verdetto finale a favore delle nazioni vincitrici. Le leadership americane, inglesi, francesi e russe iniziarono pertanto a costruire dei tavoli di esperti per individuare il perimetro delle regole del gioco della nuova governance mondiale che sarebbe sorta sulle ceneri delle devastazioni della guerra. Nella conferenza di Bretton Wood del 1944 si incominciò ad approfondire quale fosse lo strumento di analisi dei dati economici più conveniente per introdurlo poi nella operatività di ciascun paese facente parte delle Nazioni Unite. A Bretton Wood si celebrò  quindi, in soli 22 giorni di lavoro, la nascita dello strumento del Prodotto Interno Lordo che diventerà il criterio unanimemente riconosciuto per determinare lo stato di salute o meno di un paese. Uno strumento basato esclusivamente su dati economici che non tiene volutamente conto di variabili psicologiche o sociali importanti ma difficilmente quantificabili dal punto di vista numerico. Alla fine nel corso della conferenza di Bretton Wood prevalse la versione britannica che fu sviluppata ed implementata da un gruppo di economisti guidati da John Maynard Keynes. Proprio il grande economista inglese definì la condivisione di uno strumento come il PIL mirato a misurare le potenzialità e le realtà produttive dei singoli paesi come “un salto di qualità enorme che faceva entrare il mondo in una nuova età piena di gioia”. A distanza di quasi 75 anni da Bretton Wood oggi possiamo affermare che il PIL ha sicuramente aiutato la lettura dei dati economici dei vari paesi favorendo anche una più facile comparazione ed analisi delle differenze esistenti fra i vari sviluppi delle singole nazioni ma ha completamente perso ogni connessione proprio con la gioia o meglio con le paure degli esseri umani abitanti dei singoli stati.

Un recente studio dell’Ocse ha addirittura certificato che le diseguaglianze sociali aumentano di più in quei paesi dove il PIL cresce di più (come ad esempio in Svezia, Danimarca e Finlandia) mentre diminuiscono dove i PIL sono molto oscillanti come in Messico, Turchia e Cile. Si è incrementato di parecchio il filone di pensiero dei NO PIL e cioè di quegli intellettuali ed economisti che ormai ritengono che l’attuale struttura econometrica del PIL non aiuti più a comprendere dove e perché vi siano le diseguaglianze e prevalga quindi il disagio tra i cittadini. Il PIL – sostengono i promotori del movimento NO PIL – si occupa di crescita ed è basato su una cultura in cui alla crescita si attribuisce il valore della creazione di ricchezza, di occupazione e di felicità di tutti. Oggi questo contesto, come tutti possiamo facilmente verificare, rappresenta un film del passato probabilmente non più recuperabile nella sua completezza. Oggi c’è bisogno di un misuratore più efficace, più aderente alle complesse realtà delle società moderne schiacciate da una crisi economica e da un crescente e pericoloso  malessere delle popolazioni.

 

La provocazione di Anne Berner

Una interessante ed esclusiva intervista di Andrea Malaguti, apparsa su La Stampa del 25 giugno scorso, al Ministro dei Trasporti di Helsinki Anne Berner, ha finalmente permesso ai lettori italiani interessati al tema di conoscere la storia e soprattutto il pensiero di questa politica finlandese balzata agli onori della cronaca per le sue tesi da NO PIL. Svizzera di origine, ma cresciuta in Finlandia, la ministra dei trasporti finlandese ha dimostrato di avere le idee chiare in proposito e anche un preciso obiettivo di portare a Bruxelles un progetto strutturato di riforme del contenuto del misuratore del Prodotto Interno Lordo. “Il PIL ha esaurito la sua funzione di strumento di  misurazione della crescita dei vari paesi. I vecchi parametri di misura non sono più validi. Non fanno riferimento al benessere, al lavoro casalingo e alle attività non registrate dal mercato. Soprattutto, non identificano le disuguaglianze e neppure la sostenibilità ambientale e finanziaria. Non sono neanche in grado di dare valore all’economia digitale che invece oggi è decisiva”. Alla domanda di Malaguti sul perché siamo tanto ossessionati dal totem del PIL, la Berner ha risposto: “Perché è facile. Riduce tutto ad un numero. E il sistema lo supporta. Diversamente come si fa a capire se la Grecia sta crollando oppure no? E’ facile per la nostra banca nazionale, per il nostro sistema fiscale. Persino il nostro welfare si basa sul PIL. L’economia digitale è più complicata da incasellare, ma crea dinamiche straordinarie. Per questo servono nuovi parametri. Mesi fa ho incontrato il Presidente Obama. Ci siamo detti che è arrivato il momento di trovare nuove misure per la crescita ma anche nuovi codici etici e morali per l’economia digitale che sta sfidando il nostro concetto tradizionale di responsabilità. La tecnologia fa passi da giganti e noi fatichiamo a starle dietro. Il cambiamento è difficile. Ogni volta che vai a toccare degli interessi consolidati, trovi degli ostacoli. Ma noi ci mettiamo grande impegno”. E allora come pensa la ministra di Helsinki di modificare i parametri posti a fondamento del nuovo misuratore sullo stato di salute dei vari paesi? “La crescita è la nostra capacità di creare lavoro e contemporaneamente prosperità per la società intera – ha risposto la Berner a Malaguti. L’economia digitale 2.0 ci porterà a questo. In futuro non parleremo più di Welfare State ma solo di Good State: uno stato cioè con un ecosistema capace di mettere i bisogni dei cittadini davanti a tutto. Oggi le società che valgono di più al mondo si fondono su algoritmi. Immaginiamo che questi algoritmi siano applicabili in ogni paese. Sto parlando di persone normali che condividono necessità analoghe. Penso alla sanità, all’educazione o ai trasporti da cui stiamo partendo noi finlandesi”. Ma allora esiste il rischio di passare dalla schiavitù del PIL a quella delle multinazionali tecnologiche? “Non credo. Dobbiamo spingere le multinazionali ad essere aperte e trasparenti trovando il modo per stare in relazione con loro dentro regole condivise”. La Berner ha già trovato il consenso di diversi paesi europei come la Svezia, la Norvegia, la Lettonia e l’Olanda. Adesso il suo obiettivo è quello di estendere il consenso ai grandi paesi dell’Unione Europea in modo tale da trasformare le parole e i sogni in realtà concrete… prima che sia troppo tardi.

Il tentativo della Berner ha avuto fredde reazioni sia a Bruxelles che nella Washington di Trump dimostrandoci ancora una volta quali e quante siano le resistenze al cambiamento, a cercare di innovare un’econometria in evidente affanno, come ha sostenuto recentissimamente il direttore de La Stampa Maurizio Molinari.

 

Alcune considerazioni finali

Al di là delle opinioni tecniche a favore o contro questo progetto di analisi dei dati economici dei paesi della comunità internazionale, Pickett condivide l’opinione di coloro che sostengono, come il direttore de La Stampa che quello che conta sia iniziare a prendere sul serio il tema delle diseguaglianze come soggetto della vita economica. Solo così si potrà iniziare il percorso per identificare lo strumento più adatto a neutralizzarlo: una “versione” del welfare capace di garantire protezione alle famiglie impoverite dallo sviluppo della globalizzazione e delle nuove tecnologie. Bisogna dare corpo a tutte quelle iniziative capace di proteggere i cittadini in questa complessa stagione della storia dell’umanità. In mancanza di tale scarto culturale e politico, c’è il rischio che chi soffre a causa di queste diseguaglianze continuerà a sentirsi un perdente, un dimenticato, uno scartato per usare il termine utilizzato di recente da Papa Francesco, alimentando lo scontento generale e crescente che “è il più pericoloso avversario della democrazia rappresentativa” come chiosato da Molinari nel suo ultimo editoriale di domenica scorsa.

 

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