Il post sul “partito dei giovani” ha suscitato interesse e scatenato discussioni tra i nostri lettori. Da un lato i consensi per aver scritto una provocazione che formalmente, anche se in modo forse velleitario, sdogana un problema grave, sentito e sofferto dai nostri ragazzi.

Dall’altro lato, un’approvazione condizionata. Riflessioni cioè su una ipotesi in realtà astratta e lontana da una sua possibile concretizzazione.

Infatti anche tra i giovani (18-35), a specchio, si ripetono le divisioni politiche esistenti tra i “vecchi” (gli altri: 36-90). Legittime e comprensibili opinioni e idee diverse sul futuro, sul passato e sulla visione di come dovrebbe riorganizzarsi la nostra società; sulle diverse priorità nel campo dei diritti civili, dell’allocazione della spesa pubblica, delle politiche di gestione dei fenomeni migratori, del ruolo dell’Italia in Europa e nello scacchiere mondiale. Dunque, dicono i critici, in modo un po’ rude, inutile fare discorsi astratti quando la realtà propone uno scenario frazionato, legittimamente  diversificato in posizioni a volte “distinte e distanti” tra di loro. Legittima critica, comprensibile nel merito in quanto corrispondente alla nostra attualità quotidiana.

I “non pochi” giovani che si occupano di politica o anche che si occuperebbero di politica, si ritrovano dentro contenitori partitici che riproducono esattamente le contrapposizioni della politica “alta” quella dei “vecchi”. Immaginare quindi la nascita di un partito dei giovani è un esercizio intellettuale, forse stimolante ma sicuramente inutile.

Si ripeterebbero infatti le esperienze maturate con i partiti dei Pensionati o dei Verdi che, dopo la fase costitutiva, densa di sogni, speranze e passioni vibranti, si sono poi spaccati e divisi tra i pensionati o gli ecologisti di destra, di sinistra o di centro. Un fallimento dell’idea unitaria chiaro e doverosamente da tenere a mente.

A Pickett però è ritornato in mente un episodio chiave della nostra storia patria recente, istruttivo proprio su questa tematica.

Nel 1944 il nostro paese era diviso in due parti. Dopo l’8 settembre, la firma dell’armistizio con gli alleati e la fuga del re e del governo al sud, era nata la Repubblica sociale con sede a Salò e l’obiettivo di mantenere ferma l’alleanza con i tedeschi contro i traditori badogliani. Nel meridione, nacque il regno del sud, una parvenza di istituzione politica che, sotto il controllo rigido e severo degli alleati, potesse rappresentare un interlocutore politico su cui impostare il futuro post fascista dell’Italia. Proprio al sud, si tenne il primo congresso dei partiti politici prefascisti. Dopo la dittatura si tornava a fare politica e a parlare di politica. A Bari, nel gennaio del 1944, pur in un contesto particolare ancora molto condizionato dagli eventi militari, riesplosero tutte le polemiche, le contraddizioni, gli scontri, i dissidi, anche personali, tra i vari rappresentanti dei partiti del comitato di liberazione nazionale (CLN). Come se non fosse accaduto nulla negli ultimi vent’anni.

Uno degli argomenti più caldi della discussione politica in quei giorni era proprio costituito dalla figura del re, responsabile, per molti, come Mussolini, di tutti i danni e le tragedie del ventennio fascista. Monarchici e repubblicani spaccavano in due il dibattito politico rendendolo sterile e senza prospettive.

Tant’è che il governo tecnico di Badoglio, nato il 25 luglio 1943, salvo un parziale rimpasto, costituiva l’unica soluzione per dare al regno del sud un governo almeno in apparenza legittimo. Senza però i rappresentanti dei partiti prefascisti, quelli del CLN, in quanto questi ultimi avevano posto, come condizione della loro partecipazione al governo, l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, un’opzione che il sovrano non voleva neanche sentire ipotizzata.

Ci pensò Togliatti (o per alcuni… Stalin!) a sbrogliare la matassa, apparentemente irrisolvibile. Giunto clandestinamente a Napoli, direttamente da Mosca, dove era emigrato durante il fascismo, il “migliore” sparigliò il tavolo. Convinse prima i “suoi”, l’osso più duro da portare dalla sua parte, e poi i rappresentanti del CNL che bisognasse sospendere ogni divergenza, ogni diversa idea sul futuro dell’Italia. La questione istituzionale, la forma dello Stato e la nuova costituzione sarebbero state messe all’ordine del giorno nell’agenda politica soltanto dopo la liberazione del paese dagli occupanti nazifascisti. Dunque “First Freedom of Italy” poi il dibattito politico-partitico sul come gestire il “dopo”.

L’idea di Togliatti sbloccò lo stallo. Vittorio Emanuele III accettò la luogotenenza del figlio Umberto. I rappresentanti dei partiti del CLN entrarono nel governo Bonomi, il primo governo politico post fascista. Fino al 1945, alla liberazione, i partiti lavorarono insieme con passione e spirito di collaborazione superando, o meglio sospendendo, pregiudizi ideologici e diversità culturali e di visione sul modello di società sognata.

L’ho fatta lunga …. è vero … ma credo sia importante rifarsi a quell’episodio che dimostra come sarebbe possibile, se ci fosse la volontà e la vera ambizione di raggiungere un obiettivo, accantonare transitoriamente le differenze esistenti e lavorare insieme per un grande progetto di liberazione.

Nel caso del partito dei giovani si potrebbe replicare la “svolta di Salerno”!

Uniamoci, rinviamo momentaneamente ogni discussione sulle nostre differenze interne e poniamoci come priorità il diventare, ed essere riconosciuti come tali, i protagonisti di una leadership moderna, non provinciale, mirata a far conoscere e proteggere le nostre nuove generazioni: quelle dei più giovani.

In ogni caso… almeno parliamone o proviamoci a farlo.

O no?

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