“Don’t tell me word don’t matter”: non ditemi che le parole non contano”

Nel caotico e urlato presente in cui viviamo, saremmo portati tutti, istintivamente, a replicare subito: «Ne abbiamo sentite tante, troppe: mai, o quasi mai, diventate fatti/comportamenti».

La politica, i politici, non solo italiani, ci hanno abituati alle parole, alle promesse, ai programmi scintillanti. Ma anche … alle delusioni, alla loro mancata “delivery”, all’amarezza di non constatare spesso dei comportamenti conseguenti. Eppure, nonostante la rabbia, le frustrazioni, le disillusioni subite o vissute, il fascino della parola non è morto. Conserva un suo significato. Una sua forza. Forse anche pericolosa in relazione a contenuti demagogici, populisti, suggestivi ma velleitari. Sicuramente però un discorso ben articolato, raccontato in modo accattivante, accompagnato da gesti e movimenti del corpo adeguati e suggestivi, con un contenuto, e qui sta il punto, credibile, alto, emotivamente toccante, può far cambiare uno stato d’animo. Risollevare dalla depressione. Riattivare dei meccanismi vitali, virtuosi e positivi. Può invertire un trend. Ridare entusiasmo e credibilità ad un progetto, ad un paese. Ad una voglia di stare insieme in un certo modo. A rimetterci entusiasmo, determinazione e voglia di farcela. A sperare insomma in un qualcosa di migliore rispetto al “oggi”. Ad avere o riavere un sogno, un obiettivo a cui puntare. E chi non sogna o non ha una speranza rischia di rovinarsi la vita, di non apprezzare e sfruttare al meglio questa straordinaria opportunità che si chiama appunto “vita”: quella della indimenticabile canzone di Shirley Bassey “la Vita”.

Il recente cambio al vertice degli Stati Uniti ci ha fornito l’opportunità di rivisitare le tappe principali degli otto anni di Obama alla Casa Bianca. Lo abbiamo fatto attraverso i suoi discorsi pubblici, come suggeritoci da Francesco Costa sul suo sempre stimolante Post. Certo, alle parole devono seguire i fatti, ma certe “Parole” con la P maiuscola, riaccendono davvero le passioni, scaldano i cuori, permettono ad un grande ed inimitabile story teller, giovane e di colore, di coronare un sogno, per tutti fino al 2008 una vera utopia: diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Pickett ne ha scelti alcuni, quelli che, ovviamente in base al suo sentire, sono stati fondamentali per Obama, per gli americani, per i cittadini del mondo intero. L’analisi ci permetterà di riflettere meglio, “dopo” la rilettura sul tema “parole-promesse-efficacia-rischi-impatto sulla nostra comunità”. Partiamo proprio da uno speech dell’allora giovane candidato alle primarie del Partito Democratico che si occupa proprio del nostro tema: contano le parole? «Non ditemi che le parole non contano. “I have a dream”. Solo parole? “We hold this truths to be self evident, that all men are created equal”. Solo parole? “We have nothing to fear but fear itself”. Solo parole, solo discorsi? E’ vero che i discorsi non risolvono tutti i problemi, ma è vero anche che se non riusciamo ad ispirare il nostro paese, a convincerlo a credere in qualcosa, non importa quante riforme e policy abbiamo in testa. Non ditemi che le parole non contano!».

I discorsi, quindi, secondo Obama servono ad ispirare un paese, a convincere i cittadini a credere in qualcosa, a candidarsi a capeggiare un movimento di opinione che si ritrovi coeso in quella ispirazione, in quel messaggio, in quella visione del futuro. Certo poi ci vorranno i fatti ma intanto cerchiamo di creare i presupposti per riscatenare speranze, sogni, passioni comuni. Magari anche inclusive e non divisive. Magari basate su una visione dello stare insieme pacifica, solidale, forse banale, ma certamente meno conflittuale, nevrotica, sanguigna di quella che stiamo vivendo oggi. Secondo Francesco Costa, il discorso che lanciò davvero Barack Obama nell’intero panorama nazionale americano, fu quello del 2004 a Boston durante la convention del partito democratico, quella che indicò la candidatura di John Kerry alle presidenziali. A Obama era stato assegnato il ruolo di Keynot Speacher, l’oratore che dà la cifra all’evento, che segna la sintesi del messaggio strategico del partito. Obama, come spesso gli accade, ricordano i suoi più stretti collaboratori, si scrisse il discorso da solo, lo immaginò breve (17 minuti soltanto!) forte, molto identitario. Doveva unire il partito e il paese dopo gli anni di Bush Junior «Proprio in questo momento, mentre ci parliamo, ci sono persone che stanno preparando a dividerci, esperti di comunicazione e strategia fedeli ad una sola politica, quella per cui vale tutto. Bene, voglio dire proprio a loro che non ci sono un’America progressista ed un’America conservatrice; ci sono gli Stati Uniti d’America. Non ci sono un’America nera ed un’America bianca, un’America latina e un’America asiatica; ci sono gli Stati Uniti d’America. Agli opinionisti piace spaccare il nostro paese in “stati rossi” e “stati blu”: gli stati rossi per i repubblicani gli stati blu per i democratici. Ma ho qualche altra notizia per loro. Crediamo in un dio meraviglioso anche negli stati blu, e non ci piace che gli agenti federali si facciano i fatti nostri anche negli stati rossi. Alleniamo le squadre giovanili di provincia negli stati blu e sì, abbiamo amici gay negli stati rossi. Ci sono patrioti che erano contrari alla guerra in Iraq e patrioti che erano favorevoli alla guerra in Iraq. Siamo un solo popolo, fedele alla stessa bandiera e agli Stati Uniti d’America. Alla fine della fiera, su questo andremo a votare. Vogliamo partecipare ad una politica basata sul cinismo o a una politica basata sulla speranza? Non parlo di cieco ottimismo, quella specie di ignoranza volontaria per cui ad un certo punto la disoccupazione se ne andrà da sola o la crisi sanitaria si risolverà in ogni caso. Non parlo di questo. Parlo di cose più concrete. E’ la speranza degli schiavi che cantavano per la libertà seduti attorno ad un fuoco; la speranza degli immigrati che sognavano coste lontane; la speranza di un giovane marinaio che guadava coraggiosamente il Mekong; la speranza del figlio di un operaio che vuole mettere alla prova le sue possibilità; la speranza di un ragazzo magrolino con un nome strano che pensa che l’America abbia un posto anche per lui. La speranza di fronte alle difficoltà, la speranza di fronte alle incertezze, l’audacia della speranza».

Le reazioni furono di sorpresa, di commozione, proprio di speranza. Nacque la concreta sensazione di avere di fronte un talento politico straordinario dotato di una tecnica oratoria, di una body language fantastica, di uno stile assolutamente nuovo e vincente.

Pickett era seduto davanti alla televisione, in America, quella sera del 3 gennaio 2008 quando quel giovane avvocato di colore vinse a sorpresa le primarie dello Iowa, iniziando “alla grande” il suo lungo e leale confronto/scontro con Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Obama commentò così il suo successo: «Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato. Dicevano che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Dicevano che questo paese era troppo diviso, troppo disilluso per unirsi attorno ad un obiettivo comune. Ma in questa notte di gennaio, in questo momento decisivo nella storia, voi avete fatto quello che i cinici dicevano che non avremmo potuto fare … abbiamo scelto la speranza invece della paura. Abbiamo scelto di unirci invece di dividerci, mandando così un messaggio potente a tutta l’America: il cambiamento sta arrivando … questo è stato il momento in cui è avvenuto l’improbabile, invece di quello che a Washington consideravano inevitabile. Questo è stato il momento in cui abbiamo tirato giù barriere che ci hanno diviso troppo a lungo; … questo è stato il momento in cui abbiamo sconfitto la politica della paura, dei dubbi e del cinismo; in cui abbiamo smesso di affossarci l’un l’altro ma abbiamo deciso invece di tirare su il paese. Questo è stato il momento. Tra molti anni, ci guarderemo indietro e ci diremo che questo è stato il momento, questo è stato il posto in cui l’America si è ricordata cosa vuol dire sperare».

Chiudiamo questa veloce carrellata con lo speech di Obama del 4 novembre 2008 quando al Grant Park di Chicago, la sua città d’adozione, davanti ad una folla in delirio, parlò all’America da presidente appena eletto, la crisi economica era scoppiata da poco e avrebbe condizionato tutto il suo mandato. Obama però diede speranza alla preoccupazione, ottimismo ai pessimisti, energia ai depressi, gridando per la prima volta il suo famoso “YES WE CAN”.

«Se c’è qualcuno lì fuori – disse Obama alle decine di microfoni delle emittenti di tutto il mondo schierate al Grant Park di Chicago – che ancora dubita che l’America sia un posto in cui tutto è possibile, e ti chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è ancora vivo, che ancora mette in discussione il potere della nostra democrazia, questa notte è la risposta che cercate. Questo è il nostro momento. Questo è il momento di rimettere al lavoro le persone e aprire opportunità per i nostri figli; di ridare prosperità e pace al mondo; di reclamare il sogno americano e riaffermare quella verità fondamentale. Che siamo tanti ma una cosa sola; che per noi sperare è come respirare. E ogni volta che sulla nostra strada incontreremo cinismo, dubbi e persone che ci dicono che non ce la faremo, risponderemo con quel credo senza tempo esemplare dello spirito del nostro popolo. Yes we can!».

Chiudendo il suo secondo mandato da presidente, il 27 luglio 2016 e lanciando la sfortunata corsa finale di Hillary Clinton, Obama a Philadelphia fece una specie di bilancio della sua presidenza: «Più volte, nel corso degli anni, voi mi avete rimesso in piedi. Spero, ogni tanto, di aver rimesso io in piedi voi. Stasera vi chiedo di fare per Hillary Clinton quello che avete fatto per me. Vi chiedo di trascinarla come avete trascinato me. Perché voi siete gli stessi di 12 anni fa, quando parlavo di speranza. Siete voi che avete alimentato la mia fiducia nel futuro, anche davanti alle difficoltà, anche quando la strada è lunga. Speranza davanti alle difficoltà, speranza davanti alle incertezze: l’audacia della speranza! America, in questi 8 anni hai indicato la speranza, adesso io sono pronto a passare il testimone e fare la mia parte da privato cittadino. Quest’anno, in questa elezione, vi chiedo di unirvi a me e respingere il cinismo e la paura, di fare appello alle cose migliori di noi, eleggere Hillary Clinton alla presidenza degli Stati Uniti e mostrare al mondo che crediamo ancora nella promessa di questo grande paese. Grazie per questo incredibile viaggio».

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Parole dunque? Parole al vento? Pickett pensa di no al di là di una valutazione politica della presidenza Obama. La gente comune (e cioè Noi!) ha bisogno di speranza per il futuro soprattutto con un occhio ai propri figli; ha bisogno di avere un sogno da realizzare e qualcuno che le permetta di realizzarlo. Un leader che indichi una strada, una prospettica: certo possibilmente, non velleitaria, non solo propagandistica. «La speranza attrae, irradia come un punto a cui vogliamo essere vicini dal quale vogliamo prendere le misure. Il dubbio invece, non ha centro, è ubiquo» scriveva il filosofo inglese, recentemente scomparso, John Berger. Bisogna però saperla comunicare la speranza, socializzarla nel modo giusto. Bisogna saperla raccontare. La complessità del contesto in cui viviamo è tale da far commettere errori, strategici e tattici, anche ai leader internazionali più autorevoli, saggi e lucidi. Figuriamoci a quelli inadeguati! Ma chi lavora sbaglia, diceva mia nonna, lasciando intendere il significato opposto della frase. L’importante è dimostrare di avercela messa tutta, senza risparmi; di non essersi innamorato troppo del potere fino a se stesso; di non aver perso la connessione con i marciapiedi battuti dalla gente comune, soprattutto quella più bisognosa e abbandonata a una tragica solitudine.

Le parole quindi, ad avviso di Pickett, contano: eccome se contano. Ma non da sole. Rappresentano l’essenza virtuosa della politica nel senso più alto e bello del termine. Devono però camminare con la forza di un narratore abile, sobrio, integerrimo determinato non a illudere le folle ma a migliorare la nostra qualità della vita soprattutto con un riflettore puntato sui meno fortunati.

Pickett ebbe l’opportunità, una decina di anni fa, di partecipare alle elezioni sulla “Bella Politica” ideate e raccontate da Walter Veltroni: un esempio di parole che contano, pesano; di cui abbiamo bisogno; con cui possiamo riacquistare la speranza; abbandonare il cinismo distruttivo che ci accomuna, riprenderci i nostri sogni per un futuro migliore.

Di una politica, la “Buona Politica” insomma di cui abbiamo estremamente bisogno e di cui non possiamo fare a meno. Che ci riavvicini alle istituzioni e ci aiuti a stare insieme invece che a dividerci chiudendoci nei nostri laghetti egoistici.

Le parole da sole non bastano ma servono. Possono innescare meccanismi positivi e virtuosi. Fondamentali per migliorare poi, nei fatti, i nostri comportamenti individuali e soprattutto collettivi. La “Bella Politica” ha bisogno di fatti ma anche di sogni .. raccontati bene.

Riflettiamoci sopra, ne vale davvero la pena.

Comments (1)
  1. Maurizio Baiotti (reply)

    9 Febbraio 2017 at 9:24

    Eccellente

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