Cosa significa velleitarismo?

Atteggiamento ispirato ad ambizioni o desideri condannati in partenza al fallimento per impossibilità oggettive o soggettive” (Oxford Languages).

E ancora … “Atteggiamento o comportamento costituito da aspirazioni o programmi e, per essere vaghi o mal fondati, o troppo superiori alle effettive possibilità di realizzazione, rimangono per lo più sterili” (Treccani).

Gli inglesi lo definirebbero “Unrealism”.

Perché questo incipit di stampo apparentemente lessicale.

Perché, chi scrive, da quando il Movimento 5 Stelle è entrato formalmente “nelle stanze dei bottoni” delle amministrazioni pubbliche italiane (per carità, in modo assolutamente legittimo e democratico e a causa, sicuramente, dei difetti e degli errori degli altri partiti) si è posto una domanda: quanto ci costerà, come Paese, questa ventata del velleitarismo basato su concetti astratti, apparentemente anche, forse, condivisibili ma spesso ipofici come la democrazia diretta, la lotta contro le consorterie elitarie e contro i competenti, l’abolizione di tutti i presunti privilegi della classe politica?

E inoltre, il diffondere nel Paese una cultura fondata sul reddito di cittadinanza non quindi sul lavoro attivo, sull’imprenditorialità, sull’attitudine al rischio, ma sul diritto acquisito al momento della nascita, di percepire un certo reddito a prescindere dall’aver eseguito una certa attività lavorativa.

Il prezzo di questo laboratorio politico che ormai dura da parecchi anni, e, lo ripeto, può aver avuto anche alcuni aspetti positivi della sua evoluzione (per tutti, la parlamentarizzazione della protesta di piazza che ci ha evitato, per ora, i nostri “Gilet gialli”) è sotto gli occhi di tutti.

La nostra credibilità internazionale è crollata, la crisi politica del Movimento 5 Stelle è conclamata, l’Italia si ritrova di fronte ad un bivio e fa fatica a comprendere e a valutare con lucidità.

O si cambia paradigma, non a parole ma con le condotte concrete di ciascuno di noi, oppure il rischio di una esclusione, già per altro iniziata, dai consessi internazionali, si aggraverà sempre di più, abbandonandoci al nostro destino di paese composto di individui, magari anche di talento, da non di cittadini consapevoli di far parte di una grande comunità nazionale.

Queste tristi e preoccupate considerazioni mi sono venute di nuovo in  mente leggendo, in questi giorni, il bilancio del progetto denominato “Navigator” e connesso con la legge che ha disciplinato il reddito di cittadinanza.

Intendiamoci, un istituto che all’origine aveva una sua motivazione concreta e virtuosa: in un momento di crisi economica e di aumento della disoccupazione, offrire transitoriamente un reddito a coloro che avevano perso il lavoro o, comunque, che non lo potevano più trovare.

In realtà, uno strumento che avrebbe dovuto, come annunciato da Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi, sconfiggere la povertà, che ha dato luogo a situazioni negative, contaminate dalla malavita, da una cultura del “non fare” e che, soprattutto, non ha raggiunto l’obiettivo né di ridurre il numero dei “nuovi poveri” ne nostro Paese, né di ridurre le disuguaglianze.

Insomma, un disastro sia dal punto di vista culturale, sia degli effetti economici sul sistema.

In questo bilancio estremamente negativo si inserisce anche il fallimento della politica dei Navigator.

Sono stati 2980 i cittadini italiani che avevano fatto la domanda per essere formati in questo relativamente nuovo mestiere di aiuto ai disoccupati o ai mai occupati.

Dopo un anno e mezzo dalla loro nascita, i Navigator sono rimasti 2680 e si muovono in un clima di oscurità e diffidenza diventando involontariamente simboli di una misura, portata come una bandiera dai Grillini, diventata emblema dello spreco.

Certo, la pandemia non ha aiutato il modello di intervento dei Navigator.

Hanno un’età media di 35 anni, sono tutti laureati, hanno vinto un concorso con Anpal e poi partecipato a dei corsi di formazione.

Dopo di che, una volta acquisiti i rudimenti del nuovo mestiere sono stati mandati allo sbaraglio ad occuparsi di centinaia di migliaia di italiani impoveriti dalla crisi economica.

Con uno stipendio di 1.400 euro al mese avrebbero dovuto essere il braccio “armato” della norma sul reddito di cittadinanza, aiutando e formando i percipienti di tale reddito ai fini di trovare loro un nuovo posto di lavoro.

Il bilancio finale parla di pochissimi beneficiari del reddito di cittadinanza, meno del 15%, che siano riusciti a trovare un lavoro.

Lo Stato ha speso 270 milioni in un anno e mezzo per coprire i costi dei Navigator. 300 si sono già dimessi e i rimasti vedono con angoscia la scadenza del 30 aprile 2021 quando scadranno i loro contratti.

Il dossier è aperto sul tavolo del Ministro del Lavoro Catalfo che ha garantito che non saranno dimenticati.

Siamo riusciti insomma a creare le premesse per far aumentare di circa 2500 unità il grande e drammatico mondo della disoccupazione.

Questo è, a mio avviso, il lampante esempio di velleitarismo, di come un’idea, in astratto virtuosa, può essere rovinata e svuotata di ogni positività quando chi “deve mettere a terra” non ne ha né la competenza, né l‘esperienza, né la professionalità per farlo.

Aver avuto l’ambizione di riformare le politiche attive del nostro Paese affidandosi ad un presunto esperto americano che doveva collegare il reddito di cittadinanza con un efficiente sistema di replacement gestito dai Navigator, e cioè da altri presunti esperti che aiutassero i mai occupati a ritrovare un lavoro, dimostra in modo lampante tutte le tragiche carenze di una classe dirigente politica velleitaria.

Un disastro, uno spreco, una devastante diffusione della cultura del “non fare” tanto ci pensa lo Stato.

Ecco uno dei costi per la comunità intera di un laboratorio politico velleitario.

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