Quante volte lo abbiamo detto, pensato, sentito?

Ciascuno di noi gestisce e cerca di arginare una quotidianità complessa, faticosa e spesso frustrante, immaginando un mondo migliore.

I sogni rappresentano un farmaco potente contro le depressioni o la noia e fatica di vivere.

Uno dei più frequenti e diffusi è proprio quello sulla società in cui ci piacerebbe vivere: a volte molto diversa da quella in cui viviamo.

Michele Serra, rispondendo recentemente ad un suo lettore dell’Amaca, ha affrontato questo tema offrendoci una sua visione personale.

Il suo ragionamento mi ha colpito, fatto riflettere; mi ha stimolato il desiderio di socializzarvi il suo e il mio pensiero in questa delicata ma affascinante materia.

Come potrete constatare tra poco, sono due visioni, due sogni non poi così lontani o così differenti.

La voglia di migliorare il proprio status – questa è la premessa antropologica dalla quale parte il ragionamento – è uno dei motori del mondo “dai tempi dei cavernicoli”, scrive Serra.

L’economia socialista-comunista che tentò di cancellare l’interesse individuale in favore dell’interesse collettivo non ha funzionato. Ha applicato dei principi in astratto condivisibili ma che nella realtà si sono rivelati fallimentari.

Su questo punto mi sembra che non ci siano opinioni troppo diverse.

Il capitalismo è dunque il modello che ha prevalso nello storico scontro che ha caratterizzato il ‘900 contro il comunismo.

Ma il capitalismo finanziario venuto prepotentemente alla ribalta negli ultimi 25-30 anni (direi soprattutto dopo la liberalizzazione della finanza da parte del duo Reagan-Thatcher) non ci ha certo rassicurato sulle sue virtuosità. Sulla sua attitudine a puntare ad un modello equo e anche dotato di sensibilità sociale.

Anzi!

Ha dato vita ad un mondo fortemente differenziato tra pochissimi ricchi e tantissimi poveri. Con disuguaglianze evidenti e non più sopportabili in molti dei paesi del Villaggio Globale.

La sconfitta e messa al bando del modello socialista dell’economia che tipo di risultati ha portato, si chiede retoricamente Michele Serra: “Nei nostri anni siamo arrivati molto vicini ad una economia a-sociale, mossa esclusivamente dall’interesse privato; e se non fosse stato per il poco o tanto che rimane del Welfare novecentesco, con le sue tutele e i suoi ammortizzatori, quell’obiettivo sarebbe stato centrato in pieno. Dunque – continua Serra – ad essere sotto schiaffo, nel tempo presente, non mi sembra certo l’interesse privato; piuttosto le tutele sociali, specie da quando giganteschi flussi di capitale si sono spostati dalla produzione, dalla fabbrica, dal lavoro alla speculazione finanziaria”.

Insomma, il socialismo è fallito e ha perso la sua battaglia contro il capitalismo, ma oggi ci ritroviamo di fronte ad esempi di capitalismo speculativo assolutamente incoerenti con una visione del mondo pacifica e coesa.

Di qui nasce la prima riflessione sul contenuto del sogno di una società diversa: “Mi piacerebbe vivere in una società che abbia rispetto dell’interesse privato – scrive Serra – e che non ne faccia oggetto di anatema (il denaro non è lo sterco del demonio; è uno strumento di autonomia e di libertà) e anzi lo incoraggi e lo incentivi, per esempio attraverso una drastica de-burocratizzazione dell’impresa, a partire da quella individuale”.

Come non essere completamente d’accordo con Serra, da vecchio liberale quale mi sento su questo approccio e su questo concetto e visione filosofica.

Ma non basta: bisogna fare uno scarto ulteriore. Bisogna porsi un tema che è strettamente collegato con la doverosa libertà di poter accumulare ricchezze in modo legittimo.

Leggiamo ancora Serra: “Bisogna però che questa società sognata, impedisca attraverso il prelievo fiscale che si crei una così smisurata differenza di reddito e di potere e che combatta lo sfruttamento e soprattutto garantisca protezione sociale e solidarietà a chi non ce l’ha fatta”.

Qui, a mio avviso, sta il punto centrale della questione. La competitività è un valore soltanto se si esprime dentro una cornice di regole del gioco che ne limitano le derive negative.

Bisogna premiare il merito ma non dimenticarci mai della debolezza o delle fragilità di quelli che non ce la fanno, che sono rimasti indietro, che necessitano di aiuto e non di oblio.

Bisogna ricordarci della fragilità di moltitudini di persone – sottolinea Serra – da trattare come materia viva e umana non come una zavorra di cui liberarsi al più presto (vedi gli infiniti casi di ristrutturazione e dismissione aziendale nei quali gli esseri umani contano meno di zero)”.

Emerge sempre di più nel dibattito delle classi dirigenti più avvedute di questo bizzarro mondo del 2020, l’esigenza di trovare una “terza via” che riduca le disuguaglianze, enfatizzi la responsabilità sociale dei capitalisti, attivi politiche mirate a ridurre la disuguaglianza tra i cittadini.

La grande sfida è riuscire a trovare un equilibrio, in un modello capitalistico, tra la responsabilità di creare valore e profitto e la contestuale e doverosa responsabilità di incamerarne una parte di quel profitto a titolo individuale, ma di socializzarne un’altra parte alle comunità in cui viviamo e che potrebbero essere rimaste indietro nel processo di sviluppo.

Ricordo che una decina di anni fa un mio amico-cliente, emigrato “di lusso” a Montecarlo per ottimizzare il suo tax planning, mi disse: “Riccardo, sono convinto di aver sbagliato. Credo di aver meritatamente guadagnato dei soldi nella mia vita, creando valore e garantendo il lavoro a tutti i miei dipendenti. Poi però mi sono accorto di essermi andato a chiudere in un “ghetto dei ricchi” con il problema di uscire di casa e di rischiare ogni volta la contestazione, il lancio di ortaggi, l’esplosione del malessere da parte della maggior parte dei membri delle mie comunità di riferimento. Dobbiamo porci il problema della redistribuzione delle ricchezze che siamo in grado di creare: se non iniziamo a farlo sin da subito, sarà troppo tardi. Gli esclusi non avranno altra scelta che quella di eliminarci per togliere i “tappi” al loro sogno di una miglior qualità della loro vita”.

Forse la vera utopia in economia – conclude il suo ragionamento Michele Serra – è proprio l’equilibrio. Siamo passati da un periodo in cui “il padrone”, anche se produceva lavoro, era il nemico da abbattere, ad un periodo in cui i tycoon del digitale, anche se creano pochissimo lavoro e ne distruggono molto, anche se accumulano ricchezze inimmaginabili, sono applauditi come super eroi. Mi piacerebbe una decente via di mezzo, ma non so se vivrò abbastanza per vederla”.

Su questo finale decisamente pessimistico ho qualche riserva.

Penso infatti che dipenda da noi, e soltanto da noi, incidere sui modelli di convivenza tra gli esseri umani. Fa parte delle responsabilità di una classe dirigente competente, visionaria e non egoista.

Attenta alla creazione di valore, alla protezione delle imprese che sono il centro vitale di questa creazione di valore ma anche alla redistribuzione di parte di quel valore a tutta la comunità di riferimento.

Quanta nostalgia rileggendo in questi giorni alcune pagine di Adriano Olivetti che proprio 60 anni fa ci lasciò traumaticamente più soli. Un imprenditore con visione sociale che diede vita ad un modello che ancora oggi dovrebbe costituire un esempio di quell’equilibrio che Serra dice essere forse un’utopia: Adriano Olivetti ci dimostrò il contrario.

Per ricordarlo e per tributargli i giusti meriti, andiamo a rileggere i suoi testi proprio in occasione del sessantesimo anniversario dalla sua dipartita.

Comments (2)
  1. Riccardo Tosi (reply)

    1 Marzo 2020 at 17:42

    Caro Riccardo, non sarà che il mitico Adriano Olivetti aveva assorbito la parte buona del socialismo? Di quel liberal/socialismo che il mio altrettanto mitico nonno è riuscito ad inculcarmi. La stella polare che ha guidato il mio sia pur modesto percorso professionale. L’inguaribile ottimismo mi fa credere che forse riuscirò a vivere almeno i primi segnali di positivo cambiamento. Per questo ho i brividi dell’emozione quando penso e vedo le Sardine! Mi rappresentano la speranza. Forse l’unico segnale positivo di questo barbaro mondo, a cui il cui cinico egoismo impedisce di intravvedere il baratro che si è proditoriamente auto/scavato nel tempo!

  2. Andrea (reply)

    3 Marzo 2020 at 11:50

    Ottima analisi, pienamente condivisibile.
    Bravo !

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