Lo sport è politica!

Anzi, per parafrasare Karl von Clausewitz è la continuazione del fare politico con altri mezzi.

Ad ogni grande evento sportivo mondiale (Olimpiadi, Campionati del Mondo di calcio, finale di Coppa Davis, ecc.) si scatena una vecchia, ormai obsoleta e ipocrita, bagarre sul tema dello sport, o del calcio come accade in questi giorni che “deve restare fuori dalla politica” con la variante “la politica deve restare fuori dallo sport”.

Niente di più falso, finto e deviante.

Da quando lo sport in generale e il calcio in particolare sono diventati un fenomeno planetario, seguito da miliardi di utenti del Villaggio Globale, ogni evento ha rappresentato l’occasione per il paese ospitante o per le nazioni ospitate, di fare politica nel senso più ampio del marketing strategico, ma anche nel senso più spinoso e delicato di “coprire” o addirittura nascondere le proprie magagne interne, più o meno gravi.

A volte lo sport può scatenare virtuosità, partecipazione corale e inclusività; altre volte, serve soltanto da grimaldello per certi regimi per ridarsi una patente di verginità, un momento di visibilità e notorietà mondiale, difficilmente raggiungibile con altri  mezzi.

Gli esempi sono innumerevoli: basta pensare a quegli episodi che rimarranno per sempre nella nostra memoria, episodi in cui la vittoria sportiva si è connotata di un significato politico profondo, a volte, addirittura rivoluzionario e contestatore, a volte di glorificazione di un regime tutt’altro che democratico.

Abbiamo provato a ricostruire una carrellata di eventi sportivi che hanno generato importanti conseguenze politiche per il paese ospitante o per i paesi invitati.

Partiamo proprio da un famoso evento italiano della prima metà del secolo scorso: Roma, 1930, Coppa del Mondo di calcio. L’Italia mussoliniana cerca una legittimazione internazionale e vince un mondiale (così come quattro anni dopo in Francia) caratterizzato dalle camicie nere dei fascisti, sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.

Berlino, 1936, Olimpiadi: Jessy Owens, il velocista americano di colore, vince 4 medaglie d’oro nella disciplina dell’atletica davanti ad un esterrefatto prima e irritato poi Adolf Hitler, sostenitore del primato della razza ariana, superiore a tutte le altre razze.

Nel dopoguerra, chi non ricorda le Olimpiadi del 1968, a Città del Messico,  quando Tommy Smith e John Carlos (primo e terzo nella gara dei 200 metri), dopo essere saliti sul podio per la premiazione, si girarono verso l’enorme bandiera americana, aspettando in silenzio l’inizio dell’inno nazionale. Quando le note di The Star-Spangled Banner risuonarono nello stadio messicano, i due americani abbassarono la testa e alzarono al cielo un pugno chiuso, indossando dei guanti neri. John Dominis scattò una foto che sarebbe diventata una delle più famose del ‘900, simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri.

Non era far politica quel gesto?

E ancora quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Monaco del 1972, i terroristi palestinesi scelsero proprio le Olimpiadi per ottenere visibilità mondiale attraverso il massacro di una parte della delegazione degli atleti israeliani.

Non fu anche quella una feroce e violenta modalità di utilizzare lo sport per fare politica?

Passando dalle Olimpiadi al tennis, chi non ricorda le polemiche nella primavera del 1976 ( (Santiago del Cile, finale Coppa Davis) quando la squadra azzurra dei quattro moschettieri Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli aveva conquistato il diritto alla finale della prestigiosa insalatiera che si sarebbe disputata nel Cile di Pinochet: nel paese dove un regime militare aveva pochi anni prima realizzato un tragico e sanguinario golpe che aveva portato all’uccisione del presidente Allende, eletto attraverso una democratica elezione nazionale.

Alla fine prevalse il “partito” della partecipazione (che ci permise di vincere, tra l’altro l’unica Coppa Davis della nostra storia), ma il pensiero degli oppositori era di nuovo sintetizzato nella frase “Lo sport non può diventare uno strumento della politica!”.

Proprio quell’anno  si innescò il trittico di Olimpiadi boicottate a turno da parte di paesi diversi.

L’incipit avvenne sempre nel 1976 a Montreal quando molti paesi africani decisero di non partecipare ai giochi per protestare contro la politica dell’apartheid del Sud Africa.

Il Presidente del CIO Brundage propose infatti la riammissione del paese africano alle manifestazioni politiche: il Comitato Olimpico votò a favore e scoppiò un putiferio a livello  mondiale.

27 paesi del continente africano, oltre all’Iraq, boicottarono i giochi olimpici canadesi.

Quattro anni dopo, il 21 marzo 1980, a Mosca il drammatico bis: a seguito dell’invasione da parte dei sovietici dell’Afganistan, iniziata nel dicembre del 1979, il Presidente americano Carter annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero partecipato ai giochi olimpici, organizzati a Mosca, in Unione Sovietica, per protestare contro quell’invasione che violava il diritto internazionale.

La decisione del boicottaggio da parte degli Stati Uniti venne seguita da 65 paesi che non parteciparono a quell’edizione delle Olimpiadi.

A completamento del trittico di boicottaggi, nel 1984 con i giochi olimpici organizzati dagli Stati Uniti a Los Angeles arrivò la vendetta russa.

L’8 maggio di quell’anno l’URSS annunciò la propria rinuncia ai giochi con la motivazione ufficiale della “mancanza di condizioni di sicurezza per la delegazione sovietica”.

Si trattava di una manifesta rappresaglia contro il boicottaggio occidentale di quattro anni prima.

Nel frattempo, a livello di Coppa del Mondo di calcio, questa carrellata non può non annoverare un altro evento emblematico del cocktail esplosivo tra la politica e lo sport.

Nel 1978 in Argentina si gioca il Campionato del Mondo: il regime militare del generale Jorge Rafael Videla utilizza l’evento per cercare di ridarsi una immagine apparentemente dignitosa a livello internazionale ma, soprattutto, cerca di spostare l’attenzione della popolazione locale, tragicamente traumatizzata dalla terribile repressione del regime contro i dissidenti, verso un evento ludico e appassionante per il Dna dei sudamericani, come il calcio.

L’Argentina, aiutata anche da qualche  “spintarella arbitrale” vince quell’edizione del mondiale e a Buenos Aires quella notte si festeggia nonostante i fiumi di sangue che caratterizzano le azioni di “ordine pubblico” nei confronti dei giovani argentini dissidenti.

Ma la contaminazione della politica nello sport ha una lunga serie di ulteriori esempi spesso coincidenti con la scelta di paesi ospitanti che puntavano anche loro a ridarsi un’immagine apparentemente di legittimità verso il mondo intero.

La FIFA ha sempre fatto politica in questo senso.

Basta scorrere l’elenco delle sedi degli ultimi Campionati del Mondo per scoprire che le assegnazioni hanno seguito delle logiche di geo politica mirate ad aiutare, soprattutto mediaticamente, dei paesi in cui la repressione del dissenso, la violazione dei diritti umani, la violenza contro le minoranze, erano la cifra del loro  modo di far politica.

In un primo momento gli ultimi mondiali avrebbero dovuto essere organizzati dalla Russia e dagli Stati Uniti per bilanciare in modo equanime le due grandi potenze.

A Pechino ci avrebbe pensato il CIO assegnando alla Cina i giochi olimpici. Poi l’attualità costrinse la FIFA a modificare il calendario.

Anche la designazione del Qatar rientra in questo grande gioco della politica internazionale della FIFA che, anche attraverso gravi ed accertati atti di corruzione per arricchimento personale, ha spesso gestito le designazioni dei paesi facendo davvero la politica e non sempre quella delle “buone cause”.

Da questa ricostruzione storica emerge un dato: ogni sorpresa o stupore sul regime politico esistente nel paese che ospita un grande avvenimento sportivo di rilevanza internazionale è falsa e ipocrita.

Che il Qatar, per parlare del caso odierno, sia un paese con un tasso di democrazia molto basso, dove i diritti civili delle donne, delle minoranze, dei generi in assoluto, non sono né tutelati né riconosciuti, lo si sa da anni e non lo si scopre oggi.

Invece di polemizzare su un mondiale organizzato da un paese di tale stoffa, non sarebbe meglio pensare e conseguentemente programmare la diffusione di una visione e lettura del Qatar tale da permettere a tutti i miliardi di utenti dell’evento sportivo di scoprire cosa ci sia davvero nel backstage di un paese apparentemente moderno, ricco, lussuoso ma nella realtà ancora molto indietro nel rispetto dei diritti civili.

In parte ciò sta capitando e dovremmo concentrare di più la nostra attenzione su questo aspetto.

Un evento sportivo può infatti diventare uno straordinario supporto mediatico per gli oppressi di un certo paese; può dar voce alle loro proteste, al loro malessere, al loro diritto di sperare in un futuro migliore.

Lo sport è politica … basta farla in modo virtuoso.

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