La paura del cambiamento. La resistenza all’innovazione. La difficoltà di mettersi in gioco di fronte alle nuove sfide. Potremmo procedere a lungo in questo triste elenco di “tappi” psicologici che animano le menti di molti di noi che, quotidianamente, rifiutano di adattarsi o, meglio, di sfruttare la straordinaria opportunità originata dalla rivoluzione tecnologica che sta cambiando il mondo del nostro modo di vivere.

Questo atteggiamento molto tipico delle generazioni più avanzate di età che tendono a difendere il “conquistato”, ma anche di molti italiani, in generale, che non percepiscono le opportunità offerte dalla digitalizzazione del Paese, ci lascia indietro rispetto allo sviluppo globale, ci arrugginisce il cervello, e lascia a pochi, per lo più giovani, il tremendo compito di tenere aperto il microfono della sfida in questo settore chiave. Molti, stremati, lasciano il nostro Paese; altri si impigriscono sulla conservazione; pochi gridano la loro rabbia/sorpresa nel vedere loro coetanei stranieri messi in condizione di avvantaggiarsi nella competizione internazionale dalle innovazioni tecnologiche, sinteticamente definibili nell’Internet of Things o nell’Internet of People.

Una recente ricerca promossa dalla multinazionale americana Accenture ci serve ad inquadrare meglio questo delicatissimo tema offrendoci spunti per cercare di uscire da questo imbarazzante stallo psicologico.

Partiamo da un dato fondamentale: l’economia digitale, definita come la fetta della produzione economica di un Paese derivata da un qualsiasi input digitale, non è limitata al pittoresco gruppo di amici che decide di fondare una startup nel garage di casa. Si tratta di un fenomeno pervasivo a 360°, che ha investito ogni settore produttivo e che continuerà a modificarne le componenti di qui ai prossimi anni. Ritenere che la rivoluzione digitale non riguardi “la mia professione”, oltre a rivelare una limitatissima visione prospettica, è un errore frutto di quel locale particolarismo che non consente al sistema di crescere.

Uno dei principali freni allo sviluppo del digitale in Italia deriva proprio dall’incapacità dei più di intravedere un fine che – visti i potenziali effetti benefici che potrebbe apportare – dovrebbe condurre ad avere un approccio condiviso da ogni parte della società politica e civile. Come ha sostenuto in una recente intervista Layla Pavone, a.d. di Digital Magics per l’Industry Innovation, “siamo un Paese molto parcellizzato … se ognuno pensa al suo orticello non si riuscirà mai a fare qualcosa di grande”.

Proprio in quest’ottica si inserisce lo studio pubblicato in questi giorni da Accenture, frutto di un metodo diverso da quanto siamo abituati a vedere: non si limita ad affermare principi già noti (o forse non troppo) come quello secondo cui un ambiente diffusamente digitalizzato aumenta in maniera rilevante la produttività di chi lavora al suo interno; non si sofferma banalmente sui grandi ritorni che si possono ottenere con gli investimenti sul digitale; ma identifica tre specifiche “leve” nelle quali investire per ottenere i migliori risultati, specificando per ogni Paese l’ottimale allocazione delle risorse.

E così emerge che l’Italia, con i giusti investimenti, ha le potenzialità per un aumento del PIL del 4,2% da qui al 2020, per un controvalore di 81 miliardi di dollari. Le tre leve da utilizzare riguardano le competenze personali, le tecnologie e i c.d. acceleratori o fattori abilitanti (infrastrutture, pubblica amministrazione, contesto regolatorio). Il risultato della ricerca sorprende. Secondo Accenture, i cittadini italiani possiedono l’expertise per operare in maniera efficace in un mercato digitale, tanto che su un ipotetico capitale investibile pari a 10, la quota consigliata da investire nelle digital skills è 0. Il 40% delle risorse sarebbe da indirizzare verso i fattori acceleranti, ossia verso la creazione di un ambiente meno ostile alla digitalizzazione (e, in questo, la pigrizia di cui abbiamo parlato in apertura gioca un ruolo fondamentale), mentre ben il 60% di quanto a disposizione dovrebbe riguardare le tecnologie e la loro diffusione sul territorio.

Insomma, per quanto il Paese arranchi dietro alle grandi potenze mondiali, le capacità dei singoli ci sono. Ciò che manca sono gli strumenti per farle fruttare al meglio. E non si tratta solo di investimenti pubblici, dell’ormai costante refrain secondo cui lo Stato deve farsi carico della situazione per dare una svolta decisa. Questo è certamente vero, ma la digitalizzazione interna alle imprese non è di competenza del pubblico laddove attiene alle scelte di manager che, con un budget sul tavolo, devono scegliere come suddividerlo. Magari con una copia dello studio Accenture a vista.

In parziale controtendenza (perché lo sfondo è comunque quello dell’aumento degli investimenti per sfruttare al meglio le occasioni offerte dalla digital economy), un report realizzato dal Global Center for Digital Business Transformation ha messo sull’attenti i vari manager che, focalizzati sull’incremento nell’uso di risorse informatiche per permettere la trasformazione digitale del proprio business, hanno trascurato l’asset più prezioso: le persone. In buona sostanza, l’adozione di soluzioni tecnologiche non basta a trasformare automaticamente una forza lavoro che dunque rischierebbe, secondo il centro di studi creato da Cisco, di non riuscire a gestire l’immensa mole di dati che negli anni a venire non potrà che aumentare a dismisura.

Tornando ad occuparci nello specifico di ciò che avviene lungo lo Stivale, bisogna prendere atto che la competizione con colossi come Stati Uniti e Cina nel settore tecnologico a tutto tondo non sembra, ad oggi, qualcosa di prospettabile. Tuttavia abbiamo un punto di forza che ha costituito trama e ordito del tessuto produttivo italiano: siamo un Paese manifatturiero, e in questo siamo leader nel mondo. Questa eredità può (e deve) essere tradotta in qualcosa di moderno, proprio con l’aggiunta del digitale. Se è vero che il futuro è dell’Internet of Things, ossia della connettività in Rete di ogni oggetto materiale, un Paese legato alla creazione di beni come l’Italia non può lasciarsi scappare l’opportunità di implementare il digitale nel Made in Italy.

Abbiamo, noi italiani, dimostrato in altri momenti della storia del nostro Paese, di avere talento, determinazione, creatività e capacità lavorativa tali da farci diventare leader mondiali in aree a rilevante creazione di valore.

La trasformazione digitale della nostra economia è davanti a noi e costituisce un “tram che non possiamo non prendere”. Ci vuole più consapevolezza, meno pigrizia mentale, più voglia di mettersi in gioco. Insomma, ci vogliono quelle caratteristiche che abbiamo dimostrato in alcuni momenti della nostra storia di avere e di saper “mettere sul terreno”. Diamoci una mossa, ascoltiamo il grido di dolore e di stimolo dei nostri giovani. Ritroviamo lo spirito, le voglie e il senso di responsabilità del primo dopoguerra.

Buone riflessioni.

Riccardo Rossotto
Nicola Berardi

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