La trasformazione del mondo del lavoro impone uno scarto culturale da parte di tutti gli addetti ai lavori.

La tecnologia, soprattutto negli ultimi due decenni, ha indebolito la corrispondenza automatica tra lo stimolo economico pubblico e i livelli occupazionali.

In un contesto industriale in cui lo sviluppo tech assume sempre di più un ruolo decisivo sulla produttività aziendale, lo stimolo dello Stato può avere un impatto inferiore sulla crescita e sull’occupazione, dando vita quindi ad un aumento del debito pubblico senza alcuna sicurezza di creazione di valore occupazionale nel sistema.

Le teorie di Keynes, tornate di grande attualità sia durante che dopo la crisi del 2008, sia nell’attuale crisi economica connessa alla pandemia, devono essere rimeditate.

Non replicate bovinamente!

L’aumento di spesa pubblica, anche “buona”, anche di investimento, non è detto che, di per sé, scateni, come durante il New Deal rooseveltiano, creazione di valore occupazionale.

Per questo, dicevamo all’inizio, non basta tirar fuori dai cassetti le vecchie teorie keynesiane, bisogna fare di più.

Approcciare il problema con nuovi paradigmi, con nuovi strumenti, modificando proprio l’approccio tradizionale novecentesco.

Per questo motivo, scriveva in questi giorni su Repubblica, Carlo Bastasin “Il silenzio delle imprese sul loro impegno ad investire e la concentrazione dei sindacati sui risarcimenti, sono segnali preoccupanti, così come i modesti interventi del piano italiano sulla struttura del capitalismo”.

Bastasin elenca “i tappi” esistenti per cambiare veramente registro sulle regole del gioco nel mondo del lavoro: (i) il cambiamento “nella gestione delle reti di servizi è impervio a causa degli interessi che si intrecciano; (ii) in altri casi si preferisce mantenere in vita centinaia di imprese in amministrazione straordinaria, anziché aprire alla concorrenza; (iii) la partecipazione pubblica nelle imprese evita inoltre di affrontare il problema della contrattazione decentrata, ma così si frena una migliore allocazione e l’aumento della produttività”.

Accanto ad un nuovo approccio alle politiche attive sul lavoro, di cui abbiamo diffusamente parlato nelle prime tre puntate di questa inchiesta, sul “lavoro che cambia” bisogna sperimentare di più e meglio nuovi modelli organizzativi e salariali.

Un segnale che qualcuno ci sta già non solo pensando ma agendo, ci arriva, pensate un po’, dalla piccola Islanda.

Un paese che dopo un fallimento vero e proprio, ha saputo cambiare registro, mentalità e cultura e oggi sta vivendo un periodo di grande fibrillazione innovativa e visionaria.

La ricetta islandese prevede un’ora in meno al giorno con salari invariati e produttività in aumento.

Come?

State a sentire.

In questi giorni è stato pubblicato il rapporto finale su un esperimento che il governo islandese ha voluto provare attraverso alcuni gruppi di dipendenti pubblici dell’isola.

Il documento elenca tutti i vantaggi collaterali di una ricetta che ha previsto, come detto, una riduzione dell’orario di lavoro e che ha portato come conseguenza ad una maggior produttività.

La piccola rivoluzione industriale islandese è iniziata nel 2015 quando dopo una lunga e conflittuale concertazione con i sindacati, il Comune di Reykjavik ha deciso di cambiare schema.

Di provare a concedere un’ora di tempo libero in più al giorno ai suoi dipendenti senza toccare l’ammontare dello stipendio.

L’impegno del Comune è stato quello di cercare con una riorganizzazione dei flussi di produzione di non perdere competitività e garantire, nello stesso tempo agli islandesi lo stesso ottimo livello qualitativo dei servizi pubblici a cui i cittadini erano abituati.

Nel rapporto finale, si spiega che il vero problema è stato spezzare la routine e “reinventare ritmi e riti cui eravamo abituati da anni… Sono state accorciate le riunioni grazie al lavoro preparatorio via email; sono state eliminate le sovrapposizioni; sforbiciate le mansioni inutili e ridondanti”.

In questi sei anni di sperimentazione, le “cavie” si sono moltiplicate includendo diversi settori del mondo pubblico della piccola isola dell’Artico.

Le 35 ore sono diventate la norma anche all’ufficio immigrazione nazionale, al centro di protezione all’infanzia, negli asili, nelle scuole, nei musei.

Alla fine del 2018, l’1% degli occupati era coinvolto nell’esperimento.

Leggendo i risultati qualitativi provenienti da questo laboratorio di una nuova forma e modalità del lavoro subordinato, i ricercatori non hanno potuto nascondere la loro sorpresa e soddisfazione: non solo le cose funzionavano bene, ma in diversi uffici la produttività era cresciuta senza aumentare gli straordinari.

Tutto ciò senza contare i vantaggi collaterali che si leggono nel report finale: “Più tempo per i figli, un aiuto per i genitori single, più spazio per l’esercizio fisico, netta riduzione dei casi di stress, più equilibrio uomo-donna nei lavori di casa”.

Il prossimo possibile traguardo che, quasi sorridendo, si sono posti i promotori di questa ricetta islandese è la settimana lavorativa di quattro giorni!

Sembra un sogno, quasi velleitario: i risultati ottenuti in Islanda, però, ci obbligano a non sottovalutare la virtuosità di questo esperimento.

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