Oggi è diventato ancora più angosciante diventare vecchi?
Sì, non c’è dubbio!
Questo è uno dei primi verdetti certi del post Covid-19.
Una stagione della vita già segnata dal cosiddetto “conto alla rovescia” con tutto il mondo complicato e caratterizzato da ansie, angosce, paure e, a volte, conversioni, si arricchisce, cercando di tenere leggero il tema, di una “ciliegina”.
In caso di nuove pandemie, di fronte all’atroce, ricordiamocelo però evitabile, scelta tra salvare la vita di un giovane o di un vecchio, non c’è dubbio che l’over 60 avrà la peggio.
Lo abbiamo letto, sentito, registrato nei drammatici giorni dell’emergenza sanitaria soprattutto in Lombardia.
Dalle RSA, il nuovo ghetto per anziani, balzato sulle prime pagine dei media per la tragica contabilità dei morti, emergono episodi, condotte, culture più da lager nazisti che non da case di cura per vecchietti.
Personalmente, non posso assistere a questo scenario con distacco e scettico cinismo.
Sono uno dei tanti over 65 che abitano in questo paese e quindi rappresento un target potenziale per nuove discriminazioni a mio sfavore.
Lascio da parte il mio “vissuto” personale in materia: oscilla tra una grande tristezza e una affettuosa comprensione per le vittime di questa strage. Tra un senso di ingiustizia profondo e la doverosa saggezza da mettere nella valutazione dei fatti.
In questo contesto mi ha molto colpito la lettera di una certa signora Annalisa, di 57 anni, operatrice in una cooperativa che si occupa di assistenza nelle residenze per anziani.
Dopo aver fotografato la tragica realtà all’interno delle RSA, Annalisa invoca il suo sogno di “quasi vecchietta”: parole semplici, tenere, commoventi.
“Pietre” per chi deve governare il problema e la sua prospettica soluzione.
Io vorrei un luogo caldo, accogliente – scrive Annalisa – che somigli ad una casa; dove persone gentili mi aiutino, rispettandomi. Persone che non siano sottopagate, incalzate da turni e ritmi disumani; che possano sedersi a mangiare in pace, scambiare due parole con i colleghi, per poi tornare, rinfrancati e più umani, al loro fondamentale lavoro. Saprei di non poter guarire dalla vecchiaia e quindi vorrei un aiuto discreto ma non più del necessario. Non vorrei un regime da caserma con orari rigidi, anche per i miei cari in visita; non vorrei dinamiche da lager, con piccole e grandi umiliazioni. Vorrei accesso alla bellezza perché ne ho bisogno: paesaggi alla finestra, un giretto sotto gli alberi, due fiori nel vaso. Un bel po’ di arte: pittura (magari da fare io) film, sicuramente musica. Vorrei non sentirmi anzitempo già morta. Vorrei sentire che posso uscire ogni tanto; che il mondo è ancora lì, vicino. Vorrei insomma più libertà e più rispetto per quello che veramente sono: vecchia, o ricca di anni, come dice una mia amica che ne ha appena compiuti 101 in questo tragico e triste maggio 2020”.
Le ha risposto Michele Serra colpito e angustiato dalla pacata ma drammatica lettera della sua lettrice.
Abbiamo allungato la vita media di molti anni – ha scritto Serra – ma per troppe persone la vecchiaia è un limbo senza autonomia e senza dignità. Non si deve generalizzare, ovviamente. Ci sono vecchiaie sorrette da famiglie formidabili o da strutture di assistenza intelligenti e aperte… Una mia molto amata zia francese ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita in una bellissima residenza per anziani di Bordeaux che era strutturata come un condominio. Piccoli appartamenti arredati con le proprie cose e i propri mobili, assistenza medica e pasti di qualità a domicilio. Il suo appartamento era sempre pieno di ragazzi (nipoti e pronipoti). Previdente, aveva venduto la sua casa e messo da parte i soldi per pagare la retta. La società intera risente della rimozione della debolezza, della malattia e della morte. Ne deriva che il tratto finale della vita diventa qualcosa da nascondere, da occultare in strutture più o meno degne a seconda delle possibilità economiche. Eppure ci sono esempi lampanti nei quali i vecchi non sono un peso superfluo, ma parte integrante e viva della vita quotidiana. Ci sono legami e ruoli da riscoprire o da inventare, se ne capirebbe la sorprendente modernità… Bisognerebbe consorziare alcune vite, alcuni caseggiati, alcune strade per far nascere nuove comunità, più larghe e solidali. Oggi ci sempre un’utopia, domani potrebbe essere semplicemente una soluzione”.
Forse, senza pensarci e senza volerlo, Michele Serra ha sfiorato il tema di una nuova gestione dei Beni Comuni, tanto caro a chi scrive.
Ci sono, nelle nostre città, decine e decine di caseggiati abbandonati, in stato di continuo deperimento e di completa insicurezza.
Proviamo tutti a immaginare un progetto che, su un innesco dei privati, supportati da un pubblico consenziente e di supporto, anche burocratico, li ristrutturi e li affidi in gestione proprio a delle imprese sociali, magari promosse e gestite da giovani, con l’obiettivo di realizzare dei nuovi siti, dignitosi e rappresentativi di nuove comunità, trasversali anagraficamente, che, con il vincolo della sostenibilità di bilancio, permettano una vecchiaia serena, con le proprie cose vicine e i propri affetti intorno, non contaminata dall’ansia né angustiata dalla maleducazione degli altri e invece circondata da sorrisi e affettuosa partecipazione.
Insomma, una nuova e visionaria fruizione del concetto di Beni Comuni che potrebbe davvero, anche in questo settore della terza età, far nascere modelli sostenibili di una nuova partnership pubblico-privata virtuosa e solidale, anche per i nostri cari, insostituibili e troppo spesso dimenticati vecchietti.

Comments (2)
  1. nonna Marina (reply)

    4 Maggio 2020 at 14:33

    Perfetto, come sempre

  2. Riccardo Tosi (reply)

    5 Maggio 2020 at 11:57

    Assolutamente condivisibile Riccardo. Come sempre. Anche perché….parte interessata!

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