L’acquisizione di Linkedin da parte di Microsoft avvenuta lo scorso mese ha fatto scatenare le penne di commentatori ed appassionati – oltre che, ovviamente, di analisti ed esperti del settore – che si sono chiesti cosa potesse motivare un esborso di 26 miliardi di dollari. Quello che potrebbe apparire come un unicum nel mercato del digitale, è in realtà il frutto del normale ciclo di vita di una startup e, non per altro, la stragrande maggioranza di queste operazioni avviene in quella specifica area della California particolarmente propizia per le startup.
Guardando alla nozione di “startup” coniata dai puristi, infatti, si è ben lontani dal semplice concetto di “nuova impresa”, in quanto si specifica chiaramente che si tratta di organizzazioni temporanee in cerca di un modello di business scalabile che, in un periodo più o meno lungo, possono sfociare in tre direzioni: fallimento, acquisizione (spesso definita “exit”) o quotazione in borsa. Sfogliando il catalogo dei colossi del Web, notiamo che il loro percorso di crescita è caratterizzato proprio da quanto appena descritto: Facebook e Twitter hanno avuto un’esplosione di utenti e sono sbarcati in borsa, Instagram è stato acquisito da Facebook, Youtube da Google e, più recentemente, Linkedin da Microsoft.
Un modello consolidato, quindi, che porta con sé alcuni rischi – primo tra tutti, il pericolo di una bolla speculativa alla luce delle cifre intorno alle exit delle startup – ma che allo stato attuale sembra in grado di reggersi in piedi. Le acquisizioni sono un tassello diffuso e caratteristico di questa struttura economica; tuttavia, le storture che possono colpire il mercato sono evidenti agli occhi degli utenti, ancor prima che a quelli degli osservatori più esperti.
La piccola startup che riesce ad essere inglobata da un “unicorno” (così vengono definite le startup valutate almeno 1 miliardo di dollari) entra a far parte di un’entità che, già di per sé forte e affermata, diviene ancora più solida e radicata nel mondo del Web. Negli anni Google ha ottenuto, da una miliardaria acquisizione di Youtube, ben più di quanto, in termini economici, Youtube abbia ottenuto da Google al momento dlel’exit: i giganti di Internet investono cifre spropositate e si rafforzano sempre più, nel tentativo di raggiungere una posizione solitaria al comando del settore di riferimento.
La situazione attuale vede, infatti, poche grandi realtà, ognuna concentrata su uno specifico ambito: Youtube per i video di durata, Vine per i video brevi, Facebook come social network a tutto tondo, Twitter come social network legato ai 160 caratteri, Instagram come social network legato alle immagini, Linkedin come social network professionale, Whatsapp per la messaggistica istantanea. I tentativi di spodestare uno di questi colossi sono quasi sempre finiti nel nulla. Ci ha provato Google+ con Facebook, ha tentato WeChat con Whatsapp, e entrambi i casi non sembra che siano andati a buon fine.
Ci si sta muovendo, insomma, nella direzione prospettata da Federico Rampini che da anni ha previsto la creazione di un “Olimpo della Rete”, un oligopolio formato da pochi Big, situazione da cui derivano le note conseguenze in materia di libertà di mercato (limitandosi al caso più recente, risale al 14 luglio la nuova procedura avviata dall’Antitrust UE contro Google). Ma a voler dare una lettura ancora più drastica della vicenda, quello che l’editorialista di Repubblica identifica come un oligopolio riferendosi – in generale – al mondo del Web, coinvolge soggetti che sono in posizione quasi monopolistica nei rispettivi settori di riferimento. E questo perché, come si è visto, una volta preso il comando di un preciso segmento di Internet, il Gigante tende ad acquistare una fetta di mercato (e, quindi, una percentuale di utenti) sempre crescente che difficilmente riuscirà ad essere scalfita da un soggetto terzo.
L’utente medio tende a non preoccuparsi della situazione, si tratta di qualcosa che non lo riguarda fino a quando l’app o il social network di turno funzionano e gli consentono azioni e interazioni altrimenti inesistenti. Tuttavia, i rischi di un’eccessiva concentrazione coinvolgono ogni soggetto che, a vario titolo, partecipa al mercato del digitale.
Gli utilizzatori sono colpiti dal solito – e ormai quasi inflazionato, per quanto è discusso – rischio legato alla riservatezza, questa volta da leggere, però, sotto una luce diversa. La cessione di molti dati personali a diversi soggetti è rischioso, ma la cessione della stessa mole di informazioni concentrate nelle mani di uno solo di questi ultimi risulta ancora più pericoloso. La crescita e l’affermazione di un Big implica che l’utente utilizzerà solo il suo servizio, e dunque quel soggetto potrà disporre di un profilo digitale completo, non solo di informazioni parziali.
Sotto diverso profilo, Governi, organizzazioni sovranazionali ed associazioni non sono più gli unici poli intorno ai quali gravita il potere decisionale. Facebook può influenzare l’opinione pubblica sul tema omosessualità concedendo agli iscritti, come funzione automatica, la modifica della foto profilo a tema “arcobaleno”, così come Google può indirizzare le elezioni di un Paese semplicemente filtrando e ordinando in un determinato modo i risultati di ricerca, attività della quale il colosso di Mountain View è stato accusato.
In questo contesto, la neutralità e la democrazia della Rete devono essere ben inquadrate. La Rete può (e deve) essere neutrale in origine, nel senso che qualsiasi informazione deve poter essere trasmissibile ed accessibile. Ma l’utilizzo e, soprattutto, i suoi effetti, sono ben lontani dall’essere privi di direzione ed indirizzo (anche politico). La democrazia di Internet è, quindi, un concetto ancora in divenire che probabilmente dovrà essere costruito in maniera differente da quanto fatto con il mondo offline. Tentare di applicare all’online le categorie e i principi del “vecchio mondo” è operazione infruttuosa che non consente di leggere e comprendere le mosse dei Giganti del Web, sempre più legislatori e governatori del “nuovo mondo”.
Ciò che colpisce, infine, è la quasi totale mancanza di player europei a giocarsi una partita dominata dagli Stati Uniti in occidente, e dalla Cina nei Paesi orientali. Volendo considerare un concetto ampio di “social network”, si potrebbero considerare realtà come Skype – nato in Nord Europa – o Whatsapp – creato da un emigrato ucraino – o ancora altri Big con sede in Irlanda, salvo poi scoprire, di nuovo, che una volta conquistata una rilevante fetta di mercato, sono poi stati acquisiti dai colossi della Silicon Valley.
Anche l’Italia è completamente assente in questo scambio di pedine. Nel 2012 si pensava che Egomnia – social network di tipo professionale a metà tra Facebook e Linkedin, italiano al 100% – potesse imporsi a livello europeo conquistando una posizione di rilievo. Si parlava del creatore Matteo Achilli come del Mark Zuckerberg italiano, con prime pagine ed editoriali ad accompagnarne la crescita. Tuttavia, l’esplosione non c’è stata e ad Egomnia non è riuscito l’ingresso tra i Big, lasciando di nuovo l’Italia fuori dalla corsa.
Se da un lato si potrebbe parlare di una manifesta assenza strategica di visione, dall’altro è inevitabile prendere atto di come la vera crescita (la cosiddetta “scalabilità”) avvenga prevalentemente in poche aree del globo. Non è raro che alcune promettenti startup italiane, per potersi affermare, si trovino a dover emigrare negli Stati Uniti: pensiamo a CoContest che ha messo in subbuglio l’Ordine degli Architetti ed è stata accelerata nella sede di Mountain View di 500 Startups. La mancanza di acceleratori d’impresa del livello e della portata di quelli americani è la vera carenza che spinge i founder a spostarsi nei poli dell’innovazione. Per inserirsi in questo scontro, il punto di partenza potrebbe essere proprio questo.

Nicola Berardi

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