Finalmente ce ne siamo accorti. La bolla è esplosa: la cosiddetta figura dell’Influencer è finita sotto i riflettori della pubblica opinione e del legislatore nazionale.

Da alcuni anni, grazie al rutilante mondo della Rete, alcuni personaggi, più o meno noti, hanno assunto il ruolo di driver nei suggerimenti ai loro fans sugli acquisti di certi prodotti o di certi servizi. Alcuni dei cosiddetti blogger e cioè scrittori della Rete che, come Pickett, utilizzano gli spazi offerti da Internet per comunicare i loro pensieri, i loro progetti, le loro emozioni e/o riflessioni, si è scoperto che in realtà scrivevano e scrivono i loro “pezzi” su commissione e cioè su un accordo economico specifico e dettagliato con le case produttrici di quei beni e di quei servizi citati. Parliamo, ad esempio, di Selena Gomez (122.000.000 di flowers su Instagram), di Ariana Grande (110.000.000 di followers su Instagram), Fedez (3.800.000 di followers su Instagram), Chiara Ferragni (9.800.000 di followers su Instagram) Gianluca Vacchi (9.600.000 di persone che lo seguono su Facebook). Come vedete artisti o persone comuni che grazie indubbiamente ad un talento narrativo hanno conquistato la fiducia dei propri fans, suggerendo loro prodotti di largo consumo o vacanze di sogno o, più semplicemente, film da vedere o libri da leggere.

Si è creato un vero e proprio mercato con un tariffario a favore degli Influencer con dei corrispettivi direttamente proporzionali al numero dei followers dichiarati dal singolo Influencer. In altre parole si è ripetuto il format del pagare uno spazio pubblicitario in funzione del numero dei potenziali fruitori di tale messaggio. Con l’aggravante che nella Rete, come Pickett ha già scritto nel passato, esiste il fondato dubbio che il numero dei followers reale sia di gran lunga inferiore a quello dichiarato. Esistono già molti casi accertati di followers finti o meccanici finalizzati soltanto a dimostrare un seguito di potenziali consumatori in realtà inesistente. Ma su questo tema ci ritorneremo in un prossimo futuro.

Torniamo ai nostri Influencer. In questi giorni il nostro Parlamento si è finalmente svegliato e la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno a firma Sergio Boccadutri del Partito Democratico che impegna il Governo ad intervenire a livello legislativo su questa delicata tematica, magari all’interno del DDL Concorrenza in corso di discussione. La finalità è quella di regolamentare l’attività dei web Influencer permettendo ai consumatori di identificare in modo univoco “quali interventi siano realizzati all’interno della Rete internet costituendo una vera e propria sponsorizzazione”.

Il tema è vecchio come la pubblicità. Fin dalla sua nascita nel 1966 il Codice di Autodisciplina, oggi denominato Codice della Comunicazione Commerciale, aveva disciplinato la materia attraverso uno specifico articolo, il numero 7 denominato appunto Identificazione della Pubblicità: “La comunicazione commerciale deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”. L’articolo in esame si pone proprio a difesa – scriveva Pickett negli anni ’90 in un volume/commentario – del Codice di Autodisciplina – del diritto riconosciuto al consumatore che la pubblicità, quale manifestazione di parte finalizzata a catturare l’attenzione del lettore, sia sempre riconoscibile come tale e non utilizzi vesti tipiche di altre forme di comunicazione. E’ vietato, infatti, il ricorso a messaggi meramente pubblicitari che si presentino al lettore come forme tipiche della comunicazione giornalistica ed informativa. Si vuole evitare che nella pratica l’utente/inserzionista utilizzi la pubblicità presentandola al pubblico sotto forma di intervento giornalistico o altro (come appunto fa l’Influencer) alterando di fatto le condizioni necessarie per un leale confronto tra imprese concorrenti e i consumatori. L’art. 7 ha sempre costituito il presidio irrinunciabile della trasparenza nelle relazioni pubblicitarie. Il divieto posto mira in primo luogo ad impedire l’occultamento della realtà, riferita non tanto al contenuto della comunicazione in sé, quanto alla natura e alla finalità marcatamente pubblicitarie del messaggio. La pubblicità deve essere, quindi, sempre percepita dai destinatari come un messaggio che, pur ricco di informazioni, è sempre espressione di interessi di una sola parte e cioè dell’inserzionista. L’utilizzo scorretto di un messaggio pubblicitario, non immediatamente riconoscibile come tale dal pubblico cui è diretto, viene ad alterare pericolosamente le condizioni di uguaglianza nelle quali devono operare tutte le imprese quando adottano la pubblicità quale strumento di competizione concorrenziale. La giurisprudenza autodisciplinare ha consolidato un principio fondamentale contro la pubblicità clandestina: deve essere considerata illecita tutta la pubblicità che il consumatore più sprovveduto non percepisca chiaramente e nettamente come tale.

Nel quadro normativo italiano esiste già una norma (l’articolo 5 del D.L 2/8/2007 n. 145) che ha ereditato i principi contenuti nell’art. 7 del Codice di Autodisciplina: “1. La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale. La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione”.

La Rete dunque, come Pickett ha già avuto modo di evidenziare in casi analoghi, non ha rivoluzionato il diritto né abbisogna di nuove norme. Basterebbe applicare quelle che ci sono come d’altronde hanno fatto gli americani. La Federal Trade Commission (l’agenzia governativa che si occupa della tutela dei consumatori) ha già predisposto delle guide line specifiche sull’argomento “Influencer”: chiunque decida di postare un contenuto a pagamento deve includere nei testi, anche se brevi, un hashtag a scelta tra “ad”, “sponsored”, “promotion”, oppure “paid”. Bisogna che questa precisazione grafica sia replicata in ogni post anche se pagato dallo stesso inserzionista. Per la Ferderal Trade Commission ogni prodotto sponsorizzato incluso in un’immagine deve essere considerato una pubblicità … senza se e senza ma!

Allora, ma torniamo al tema originario, quello che sorse agli albori della pubblicità al momento della nascita del mercato e quindi dei consumatori, bisogna di volta in volta andare a verificare se tra l’Influencer di turno e l’inserzionista esista il cosiddetto “rapporto di commissione” e cioè un accordo economico per cui l’Influencer riceve un corrispettivo a fronte della menzione nel suo sito/blog del prodotto/servizio dell’inserzionista.

Una riflessione finale. Alla luce delle considerazioni svolte Pickett constata amaramente che sarebbe bastato applicare la normativa vigente fin dal sorgere dei primi casi di Influencer per evitare da un lato ingiustificati arricchimenti privati di soggetti che avevano approfittato della presunta rivoluzione digitale per inventarsi un apparente nuovo mestiere in realtà “vecchio come il mondo” e dall’altro eventuali inganni nei consumatori/followers attratti da suggerimenti dei loro “idoli” nati non da un reale gradimento del prodotto, ma semplicemente da un guadagno sulla menzione di una certa marca.

Meglio tardi che mai dunque! Iniziamo dunque sul serio a monitorare il mercato e a sanzionare gli Influencer in realtà testimonial a pagamento di certi prodotti.

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