Paura, insicurezza, bisogno di protezione contro gli assalti dei diversi. Degli sconosciuti. Degli “altri”. Oppure, addirittura, sostanziale indifferenza verso la tragedia che ci circonda.

I sociologhi si dilettano a cercare di capire il “vissuto” degli italiani che, sembrerebbero, in grande maggioranza, condividere le politiche esclusiviste del nostro Ministro degli Interni.

Sabato, in tutta Italia, nonostante il mal tempo, migliaia di persone si sono ritrovate in piazza a testimoniare invece il loro dissenso contro le politiche salviniane. Contro il decreto sicurezza. Contro il privilegiare la presunta tutela della nostra sicurezza rispetto al salvataggio e accoglienza dei migranti naufraghi.

Pickett, nelle ultime settimane, ha voluto investigare personalmente e in privato, su come la pensino i nostri ragazzi su questo tema spinoso e tragicamente attuale. In fondo sono loro che dovranno vivere nella società costruita da noi oggi con le regole del gioco sulle quali ci stiamo confrontando con fatica, con molto “stomaco” e bile, spesso con violenza dialettica e simbolica.

Cosa pensano i nostro giovani in merito? Cos’hanno in testa i liceali che stanno per entrare o nel mondo del lavoro-che-non-c’è o nell’ultima, decisiva “tappa” della formazione scolastica?

Abbiamo letto, in questi giorni, le analoghe esperienze scritte da Walter Veltroni e Paolo di Paolo in due diversi licei romani. Noi l’esperimento lo abbiamo fatto a Torino, mischiandoci ai ragazzi che entravano o uscivano da scuola e limitandoci ad ascoltarli prima e stimolarli poi per farci capire come vivano il tema dell’accoglienza dei migranti.

Un tema che caratterizzerà, in ogni caso, i prossimi decenni della vita di tutti gli esseri umani e quindi la loro.

Le risultanze sono state interessanti. Istruttive. Responsabilizzanti per noi. Piuttosto in linea con quelle percepite e registrate da Veltroni e da di Paolo.

Le riflessioni che abbiamo ascoltato sono state di varia natura: per lo più caratterizzate da un’attenzione al tema proposto. C’è interesse, partecipazione. Non di tutti, certo, come sempre. Ma di un buon nucleo che fa da traino alla maggioranza … solitamente silenziosa. Esiste poi sempre una percentuale di ragazzi estranea all’attualità, irridente, annoiata, compiaciuta di assumere toni, espressioni, atteggiamenti di distacco, lontananza, superba, presunta superiorità rispetto agli argomenti messi sul tavolo.

La fotografia più spietata ma stimolante, l’abbiamo sentita da una ragazza, attenta e preparata, curiosa dell’attualità che la circonda: “Tra qualche decennio qualcuno istituirà un giorno della memoria per i morti in mare di questi anni … mi chiedo solo che cosa ci diremmo a riguardo. Io non sono indifferente, nemmeno i miei compagni lo sono, ma mi sento impotente e vorrei che qualcuno, fra gli adulti, si facesse davvero carico di questa impotenza”.

Parole forti di una ragazza che invoca una politica, nel senso alto del termine, che riacquisti il suo ruolo di driver delle linee guida di una coesione tra cittadini, ritenuta vitale per evitare scontri o, peggio, altre guerre.

Paolo di Paolo, a questo proposito, ricorda la lezione di Hannah Arendt: “Una ragazza del secolo scorso, Hannah Arendt – ha scritto di Paolo – si poneva le stesse domande sulla responsabilità universale, sui limiti del nostro agire, sulla difficoltà di costruire qualcosa nell’isolamento, sul passaggio da un ideale di buona volontà all’essere davvero umani di buona volontà: «La storia – ha scritto Hannah Arendt – conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata. Lì si può chiamare “tempi bui”».

La consapevolezza della ragazza diciottenne che non è indifferente ma si sente impotente lascia aperte due strade: il rischio della resa, di accaparrarsi un alibi forte per sfuggire dal presente ed estraniarsi dalla realtà. Magari aiutandosi con la chimica e autodistruggendosi. Alternativamente, accettare la sfida del cambiamento. L’assumersi la responsabilità di “scendere in campo” facendo valere le proprie idee, le proprie speranze, il proprio diritto a coltivare i propri sogni.  

“La maggioranza degli adulti ha perso la speranza di poter cambiare il mondo – ci ha raccontato un’altra giovane liceale – ci consegnano speranze che non sono riusciti a realizzare. Ora i politici ci rassicurano perché questo serve a loro ma non accendono i sogni. Io non sono credente, però rispetto chi nella fede trova spiegazioni e speranza. Ma le religioni devono essere vissute in modo silenzioso, privato. E, soprattutto, coerente. Come ha detto Papa Francesco: siamo tutti aperti e buoni, poi si sale sull’autobus e non ci si vuole sedere vicino alle persone di colore”.

Per una terza compagna di classe delle prime due: “La scuola non aiuta lo scambio di idee ma facilita soltanto l’acquisizione. Questa è necessaria, ma non sufficiente. Sentiamo che la nostra sfida sta nel crescere, capire, sfuggire alla semplificazione delle complessità che sembra essere il mantra del nostro tempo. Le persone che non hanno cultura si fanno abbindolare da persone colte che hanno perso però umanità”.

Di fianco al rischio dell’Indifferenza e dell’Impotenza esiste anche, tra i ragazzi, la paura di una terza I: l’Intolleranza. “Temiamo di ritornare a vivere stagioni dell’umanità – ci ha detto, quasi sottovoce, un ragazzo di V liceo, interessato all’attualità ma preoccupato dei “tempi bui” preconizzati da Hannah Arendt – in cui si ripeta il fenomeno di un’intolleranza assurda, di un tradimento vero e proprio dei principi fondamentali della democrazia: l’accettazione dell’altro di per sé, il rispetto di un’opinione diversa dalla nostra”.

Insomma a Pickett i nostri ragazzi sono sembrati saggi, equilibrati, giustamente preoccupati per il loro futuro ma non privi di speranze e di sogni. Certo ci responsabilizzano a “fare qualcosa” per migliorare la nostra coesistenza affinché rimanga civile e per permetterci di coltivare la nostra speranza in un futuro migliore.

Ma “come si può essere felici in un mondo in cui tanti stanno male?” ci ha ricordato, salutandoci con la mano, una diciottenne di colore, cittadina italiana, figlia di italiani, con un sorriso triste, pieno di speranze ma velato da un presente “buio” e denso di preoccupazioni.

 

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