Il Governo Draghi è stato battezzato ed è partito per la sua navigazione.

Il consenso del neo Primo Ministro è alle stelle: oltre il 65%!

Per alcuni, però, il Governo è troppo segnato dalla “continuità”.

Per altri è troppo politico e poco tecnico.

La vera novità è, quindi, discontinuità (al di là della esigenza di dover contare su una maggioranza certa e ampia nei due rami del Parlamento … non dimentichiamolo mai!) sta proprio, a nostro avviso, nella figura del Premier.

E’ lui, con la sua storia, la sua autorevolezza, la sua sobrietà (abbiamo già visto quanto sia importante in comunicazione il … silenzio!) a segnare lo scarto differenziale, la vera e auspicata discontinuità con il passato.

Detto ciò, adesso, occupiamoci di “portare a terra”, come ama dire il neo ministro Colao, le buone intenzioni.

Federico Fubini, sul Corriere della Sera, ci segnala un dato che non possiamo ignorare. Quando il Next Generation EU fu varato nel luglio scorso per 750 miliardi, di cui 209 solo per l’Italia, “Nessuno poteva sapere quanto violenta sarebbe stata la seconda ondata del virus, quanto numerose le varianti e quanto lento il dispiegarsi dei vaccini. Oggi quei fondi europei non sono molti, rispetto ai danni portati dalla pandemia. Dalla banca dati della Commissione europea si può calcolare come solo in investimenti privati tra il 2020 e il 2022 l’Italia perda 140 miliardi, rispetto alla normalità pre-Covid e l’Europa ne perda 1100.  Questo buco vale da solo più dell’aumento netto di investimenti pubblici ad oggi previsto con il Recovery fino al 2026. Per questo la vera missione del prossimo Governo non è semplicemente spendere quei soldi europei. E’ farlo così bene da attivare almeno altrettanti investimenti privati, altrimenti anche quelli serviranno poco.”.

Dunque il ruolo dello Stato dovrà essere quello di dirigere questa massa di denaro pubblico, mai vista prima, verso obiettivi tali da scatenati altrettanti investimenti privati.

Se no il Recovery Plan non basterà a rilanciare la nostra economia.

Solo così potremo valorizzare questa straordinaria opportunità che ci ha offerto la nuova Europa “solidale”.

Torniamo dunque ad un tema centrale del dibattito politico ed economico, non solo italiano, di questi ultimi anni: il ruolo dello Stato in un modello di economia di mercato.

Limiti, vincoli, pregi e difetti: proprio in un momento storico in cui ci saranno, a breve, risorse finanziarie pubbliche mai viste prima.

A fronte di un filone di pensiero “interventista” (lo Stato interviene nell’economia come soggetto imprenditoriale, assumendo partecipazioni in imprese e giocando la partita del mercato e contro il mercato) esiste un filone “liberista” per cui lo Stato dovrebbe limitarsi a svolgere i suoi compiti istituzionali (Esteri, Difesa, Giustizia, Ordine Pubblico e Sanità) senza interferire nel libero gioco delle regole del mercato.

Dove e come si schiererà Mario Draghi?

Che cosa dobbiamo aspettarci dalla sua guida del Governo?

Per cercare di capirlo e quindi di anticiparne i possibili sviluppi strategici e tattici, abbiamo rivisitato la figura del suo principale maestro.

Mario Draghi è stato un allievo di Federico Caffè, l’indimenticabile professore di politica economica della Sapienza di Roma, scomparso misteriosamente nel 1987, senza lasciare tracce di sé stesso.

Grande teorico e storico dell’economia, Caffè ha sviluppato numerosi studi sul riformismo e sulla difficoltà di applicarlo nel nostro Paese.

La sua produzione scientifica viene considerata, non solo in Italia, una delle sintesi più ricca e avanzata del pensiero socialista e liberale in politica ed economia: lo sforzo di coniugare libertà, uguaglianza e solidarietà in una democrazia vera e moderna.

Il riformismo che Caffè ha sempre perseguito e rivendicato contiene “quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere”.

Nella visione di Caffè è centrale una politica economica che “consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica… L’obiettivo della politica economica è dunque la piena occupazione e l’affermazione della dignità del lavoro come via per la promozione dell’intera persona umana, nonché la realizzazione, attraverso il pubblico intervento, di una “maggiore equità” per portare ad un più completo ed efficiente uso delle risorse di una nazione”.

Il pensiero di Caffè era dunque permeato di un vero e proprio scetticismo verso le tesi neo liberiste imperanti  dagli anni ’70, della centralità sociale e politica del mercato, della intangibilità delle logiche del profitto e del merito, ossia verso la disuguaglianza che nasce dall’interpretazione dell’economia come un astratto sistema di equilibri, di libere scelte individuali, di concorrenza perfetta.

Il titolo di uno dei suoi libri più famosi “La solitudine del riformista” è quindi l’esito obbligato di queste posizioni: Caffè – come ha scritto recentemente Carlo Galli – vedeva l’avanzata del neo liberismo, da una parte, con la sicurezza dei suoi esponenti monetaristi di primo piano e con le sue promesse a buon mercato; e dall’altra la incapacità della sinistra di comprendere la portata epocale degli avvenimenti. E vedeva bene, con acume misto a malinconia, le occasioni perdute per la politica e per la società, i costi sociali, le disuguaglianze, le inefficienze, i fallimenti del cosiddetto “libero mercato”, l’operare oscuro degli anonimi incappucciati che muovono all’insaputa dei popoli la finanza internazionale.

E fu probabilmente questo scoramento all’origine della sua misteriosa scomparsa nel 1987, che ancora oggi suscita tanta curiosità.

Fu un keynesiano convinto che, nonostante il suo scetticismo, ha sempre scritto che “Alla lunga le idee hanno la meglio sul peso bruto degli interessi e che quindi le idee sono sempre ispiratrici di nuove fasi della nostra esistenza collettiva”.

Che cosa potrebbe suggerire oggi Caffè al suo allievo Mario Draghi?

Gli ripeterebbe molti dei suggerimenti che gli dava a suo tempo – ha dichiarato recentemente il prof. Nicola Acocella che lavorò per oltre 25 anni con Caffè e che rese il testimone dal suo maestro nella cattedra di politica economica alla Sapienza di Roma – uno in particolare: attenzione ai fallimenti del mercato. D’altra parte, Draghi, ha toccato con mano alcuni di quei fallimenti, quando ha dato seguito al suo “What ever it takes” che ha salvato l’Euro”.

Quali sono gli insegnamenti di grandissima attualità di Caffè?

La necessità di potenziare la scuola e l’Università, di riformare la pubblica amministrazione, di accrescere l’occupazione e migliorare la distribuzione del reddito, di lottare contro l’evasione fiscale, di riformare l’Unione Europea”.

A chi fosse interessato ad approfondire le teorie del prof. Federico Caffè consigliamo la lettura oltre al già citato volume “La solitudine del riformista” (Bollati – Boringhieri, 1990), “In difesa del Welfare State” (Rosemberg & Sellier, 1986).

Scavando ancora di più nelle radici del pensiero politico ed economico liberal-socialista, abbiamo incontrato e conosciuto la figura di Walter Eucken (1891-1950), un pensatore tedesco, professore di università, oppositore del nazismo.

Grazie anche ad un pregevole contributo di Alessandro De Nicola su La Repubblica, siamo riusciti a farci un quadro preciso sulla nascita del Ordoliberalismo in Germania, la patria del cosiddetto socialismo liberale.

I suoi fondatori, Walter Eucken appunto insieme al giurista Franz Boehm partivano dalla premessa che il mercato non fosse un evento naturale, ma incardinato in un ordine giuridico-istituzionale che richiede una particolare “manutenzione” per il suo corretto funzionamento.

Prendendo le distanze dal “laissez-faire” essi affermavano che lo Stato debba sorvegliare e attuare la costituzione economica di un Paese, la quale a sua volta determina il funzionamento dei mercati e il modo nel quale i partecipanti allo stesso perseguono i propri fini.

Sia Eucken che Boehm ritenevano che tutte le società sono in gran parte il prodotto dell’evoluzione e non la creazione di un piano preordinato: il mercato non è stato inventato o disegnato a tavolino da qualcuno, ma si è formato gradualmente nei millenni. Ciò non toglie che questa evoluzione possa essere inquadrata da precetti normativi.

Per Eucken e Boehm l’ordine giuridico deve creare le condizioni per gestire in maniera virtuosa gli effetti benefici di quel libero mercato.

Gli “ordoliberali” parlavano di “Stato forte” perché solo esso poteva assicurare il libero gioco della concorrenza evitando il formarsi di cartelli e monopoli.

Lo Stato serve ad evitare il conferimento di privilegi a particolari gruppi di interesse.

E per questo motivo che sono necessarie leggi generali e astratte che impediscano la discrezionalità dei politici, normalmente proni a concedere favori a chiunque sia in grado di garantire voti.

Lo Stato, secondo Eucken e Boehm è il “guardiano dell’assetto competitivo”.

La politica, insomma, deve essere circoscritta da limiti costituzionali.

Le teorie degli ordoliberali e quelle di Federico Caffè hanno segnato la formazione economica del nostro neo Primo Ministro e c’è da aspettarsi che la sua azione di governo risenta dell’insegnamento di tali maestri.

In particolare proprio con riferimento al ruolo dello Stato.

In Italia abbiamo assistito negli ultimi anni ad una estensione legislativa del concetto di “strategico” per l’uso dei poteri speciali (“golden power”) e per l’operato di Cassa Depositi e Prestiti e questo trend ha creato una situazione confusa. Rischiamo di trattare la robotica industriale allo stesso modo dei supermercati o la fotonica integrata come i porticcioli turistici.

Una strada pericolosa perché svuota di contenuto lo stesso aggettivo “strategico”.

Diventa tecnicamente impossibile analizzare innumerevoli operazioni di cui rivendichiamo la strategicità aumentando l’incertezza verso investitori interni ed esteri.

Una rivisitazione concettuale della partnership Stato-mercato merita dunque l’attenzione di Mario Draghi e della sua maggioranza parlamentare, insieme ad un sistema di garanzie per le imprese veramente in grado di incidere sulle catene del valore che coinvolgono l’Italia.

Questo a maggior ragione nell’adattamento alla transizione ecologica che è anche una competizione che ridisegnerà il capitalismo europeo creando nuovi vincitori e nuovi vinti.

Questa testata si rifà ad un manifesto di valori tipici del liberal-socialismo o del socialismo liberale, come preferite.

Proprio quello immaginato, descritto, insegnato prima da Walter Eucken e poi da Federico Caffè.

Vediamo se Mario Draghi seguirà le tracce di questa per ora minoranza del pensiero filosofico, politico ed economico dell’Europa.

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