Il tema scatenato dalle dichiarazioni forti, visionarie e solidali di Angela Merkel sulla necessità di una collaborazione strutturale e continua tra le nazioni più fortunate e quelle più devastate dal Coronavirus, tocca un punto cruciale della ripresa post-Covid.
La mutualizzazione dei debiti associata al voler evitare che la fragilità di alcuni Paesi possa contaminare, con un effetto domino devastante, tutte le economie degli altri Stati.
Il pericolo della fragilità” titolava il suo editoriale di qualche giorno fa il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari.
Fragilità che significa conflitti interni, violenze di piazza, rischio per le democrazie.
Le instabilità politiche conseguenti potrebbero aprire la strada a forme di dittatura, lette come la panacea per uscire dalla crisi.
Ho scoperto proprio in questi giorni che un punto di partenza per gestire questo spinoso problema potrebbe proprio essere costituito da una recente legge americana, sì proprio promulgata da quel Congresso ancora in mano ad una maggioranza di repubblicani trumpiani, solidissimi, seppur solo al Senato.
Ebbene, proprio in quella Washington dove il presidente si diverte quasi a “spararle ogni giorno più grosse” compromettendo rapporti storici con paesi alleati e rompendo il fronte multilateralista a favore di un sistema di accordi bilaterali, contrario a qualsiasi coordinamento sovranazionale e improntato soltanto a logiche di business a breve, proprio nella capitale americana, dicevo, è stata emanata una norma che ci aiuta a capire come sarebbe possibile immaginare una strategia sovranazionale per superare l’attuale tremenda ed inedita crisi non solo sanitaria ma anche e soprattutto economica.
Con un insolito e rilevante voto bipartisan, il Congresso di Washington ha approvato, lo scorso dicembre 2019, una norma denominta Global Fragility Act.
I proponenti, i democratici Coons e Engel e i repubblicani Graham e McCaul, sia al Senato sia alla Camera, hanno chiesto al Presidente Trump di “avere come priorità nei prossimi 10 anni una strategia di aiuti all’estero per la prevenzione di conflitti e violenza nelle nazioni fragili” auspicando “la necessità di combattere alle radici le cause dell’instabilità” con progetti per far diminuire “il disagio, le disuguaglianze e la povertà che sono all’origine delle violenze e dei conflitti”.
La pandemia ha allargato il perimetro del progetto dei deputati e senatori americani: all’inizio i proponenti pensavano alle regioni più instabili di Africa, Asia e America Latina. Oggi lo scenario si è “arricchito” di nuovi paesi che soffrono le conseguenze dell’emergenza sanitaria ed economica e sono quindi segnati da simili e pericolosi rischi prospettici.
Lo spirito di questa norma nasce proprio dalla necessità di far convergere i paesi più industrializzati e più ricchi intorno ad un programma di interventi economici e sociali capaci di promuovere stabilità per disinnescare le fragilità.
Una sfida che potrebbe indicare sul serio il percorso per ricominciare a crescere dopo l’attacco della pandemia, evitando derive anti democratiche.
Forse il Global Fragility Act è stato emanato approfittando di un momento di distrazione del Presidente Trump: certo è diventato un ottimo trampolino di un’America che torna a farci sognare.

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