Nel cercare di aiutarci, nel poco tempo che abbiamo a disposizione (ma l’altra “fetta di tempo” la valorizziamo davvero bene?) ad ottimizzare le nostre letture che auspicano luce e lumi per rompere il buio che ci circonda, Michele Salvati ci suggerisce due autori e due testi recentemente pubblicati.
Se dovessi consigliare un solo libro che stimoli una riflessione approfondita sui grandi temi economici, sociali e politici del nostro tempo – scrive Michele Salvati – non avrei dubbi: consiglierei “Capitalismo contro capitalismo” di Branko Milanovic, pubblicato da LaTerza”.
La seconda opzione di Salvati è Thomas Piketty con i suoi due tomi “Il capitale nel XXI Secolo” (Bombiani, 2013) e “Capitale e ideologia” (La Nave di Teseo, 2020).
Secondo il politologo italiano i due testi rappresentano la miglior fotografia sul futuro del capitalismo e sulla necessità di una sua riforma: due libri scritti da due studiosi delle disuguaglianze e grandi conoscitori e critici del marxismo e delle moderne teorie della crescita economica.
Branko Milanovic diventò famoso nel mondo nel 2012 quando ideò la cosiddetta “Curva dell’elefante” denominata così per la sua forma caratteristica.
Essa descrive l’effetto che la globalizzazione ha avuto sul tenore di vita della popolazione mondiale, suddivisa a seconda del reddito.
Nell’immagine dell’elefante, si osservano quattro gruppi di popolazione mondiale: (i) i più poveri corrispondenti alla coda dell’animale che non hanno conseguito alcun vantaggio. (ii) una vastissima fascia di popolazione dei paesi sottosviluppati, il dorso del pachiderma, che ha invece ottenuto notevoli benefici dalla globalizzazione. (iii) la classe media dei paesi ricchi (la parte discendente della proboscide) che ha perso terreno mentre si è enormemente giovata della globalizzazione (iv) una ristretta élite globale, corrispondente alla parte in cui la proboscide va verso l’alto.
Questa suggestiva rappresentazione grafica della popolazione mondiale in ordine alla diversa allocazione dei redditi conseguenti alla globalizzazione del primo decennio del III millennio, diede una notevole notorietà all’autore Milanovic.
Secondo Salvati, proprio il testo di Milanovic è più adatto ad un target di lettori non specialisti e, soltanto sulla base della conoscenza acquisita, secondo Salvati, si potrà poi passare alla lettura dei due testi di Piketty che ho personalmente già descritto e commentato in due miei precedenti contributi su questa rivista.
Stimolato da questo autorevole studioso italiano, mi sono dunque appropinquato al contenuto dell’ultimo libro di Milanovic, il citato “Capitalismo contro capitalismo”.
Devo confessarvi che la lettura non è ostica ma gradevole; la comprensione abbastanza semplice tenuto conto della complessità degli argomenti trattati.
Insomma, un saggio che può diventare molto utile ai lettori curiosi sul futuro della nostra umanità e sulle moderne teorie economiche.
Milanovic parte da un presupposto politico-lessicale sul che cosa si deve intendere convenzionalmente per capitalismo.
Si tratta dei sistemi economici in cui gran parte della produzione avviene utilizzando apparecchiature e macchinari (i cosiddetti mezzi di produzione) posseduti da privati; gran parte dei lavoratori impegnati nella produzione sono salariati; gran parte delle decisioni riguardanti la produzione e i prezzi sono assunte in modo decentrato, in regime di mercato, senza che alcuna autorità imponga alle imprese dei vincoli.
Questa è il modello di riferimento per Milanovic del capitalismo più o meno astratto.
Secondo l’autore (economista americano di origine serba che insegna alla City University di New York) le declinazioni reali di tale modello sono state, sono e saranno poliedriche.
Si va da quello che Milanovic definisce il “capitalismo social-democratico” consolidatosi nei paesi di matrice anglosassone e sviluppatosi nei trent’anni successivi alla conclusione della Seconda guerra mondiale, al “capitalismo liberale”, di matrice soprattutto britannica, contestuale alla prima grande ondata della globalizzazione (il modello Tatcher poi replicato anche da Reagan negli Stati Uniti).
E’ molto interessante e per certi versi innovativa l’analisi che Milanovic sviluppa sul nuovo capitalismo cinese.
Secondo l’autore l’attuale struttura economica del modello cinese fotografa l’evoluzione traumatica di un’economia comunista e pianificata che rappresenta il punto di arrivo di un Paese che prima ha lottato contro il colonialismo e l’invasione delle potenze straniere e poi ha “azzerato” la storia precedente, adottando gli schemi di una rigorosa rivoluzione di stampo marxista-leninista.
Milanovic sostiene che il comunismo con pianificazione centralizzata non è uno stadio di sviluppo successivo al capitalismo, ma un passaggio intermedio che può favorire l’adozione del capitalismo in paesi sottosviluppati con un passato caratterizzato dal colonialismo: “Il comunismo – scrive – ha adempiuto la sua missione ed è improbabile che avrà un ruolo nella storia futura. Non è un sistema del futuro, ma un sistema del passato”.
La Cina rappresenta esattamente l’esempio di questa teoria rielaborata dall’autore serbo.
Milanovic si dilunga in diverse parti del libro sull’analisi del caso cinese che denomina “Capitalismo politico”.
Volendo sintetizzare le sue conclusioni si potrebbe dire che non potrebbe una casta di mandarini comunisti conservare il suo potere senza riuscire ad assicurare un continuo sviluppo economico e a controllare la minaccia di una corruzione eccessiva.
Milanovic introduce poi un provocatorio parallelismo tra il capitalismo cinese (il “capitalismo politico”) e il capitalismo statunitense definito dall’autore “capitalismo liberal-meritocratico”.
In un capitolo dedicato appunto al modello americano, l’autore si pone un quesito retorico: come si può definire meritocratico un sistema in cui le effettive capacità dei singoli sono sempre di più “comprate” e costruite attraverso l’utilizzo delle migliori e più costose istituzioni educative da parte dei ricchi? E in cui l’élite politica è sempre più contaminata dagli stessi ceti sociali, e cioè da quell’1% della popolazione che ha a cuore la perpetuazione della propria egemonia e riesce a “gabellarla” per merito individuale?
Proprio sulla corruzione, endemica secondo l’autore nel modello capitalistico, si incentra molta parte della narrazione. Nasce anche dalla corruzione, ormai estesa in maniera aberrante, l’incremento delle disuguaglianze e addirittura l’aumento “dell’endogamia” (i ricchi, i meglio istruiti che si sposano sempre di più tra di loro).
C’è poi tanta differenza – si chiede Branko Milanovic – tra le élite cinesi, formalmente immodificabili e le élite americane che affidano la propria sopravvivenza alla capacità di soddisfare le domande economiche della popolazione, all’aspirazione alla ricchezza e al benessere materiale che è il tratto fondamentale del capitalismo in generale?
C’è dunque la possibilità che i modelli economici, cinese e americano possano ulteriormente avvicinarsi?
L’autore vede benissimo le differenze che attualmente ancora esistono tra i due sistemi, ma pone una serie di domande provocatorie molto stimolanti.
La Cina potrebbe essere costretta ad una svolta liberal-democratica; gli Stati Uniti potrebbero essere costretti a tornare ad un equilibrio di stampo social-democratico.
Entrambi i paesi potrebbero raggiungere un equilibrio caratterizzato da maggiori vantaggi fiscali per le classi medie, finanziati da un aumento dell’imposizione sul reddito e sulla ricchezza; dal ritorno ad una tassazione ereditaria fortemente progressiva; da un sistema di istruzione pubblica di alta qualità, effettivamente aperto anche ai figli delle classi più povere; da un finanziamento esclusivamente pubblico delle campagne elettorali.
Insomma, le conclusioni di Milanovic non sono poi molto differenti da quelle del suo collega francese Thomas Piketty.
Entrambi sognano una convergenza virtuosa tra il “capitalismo liberale meritocratico” e il “capitalismo politico” con una rifondazione di un nuovo patto social-democratico nel contesto di una economia globalizzata.
Insomma, due visionari, probabilmente di parte, ma che ci schiudono orizzonti che possono far pensare ad un miglioramento della coesistenza pacifica tra gli esseri umani nel mondo, ad una miglior redistribuzione del reddito complessivo, ad una miglior qualità della vita media di tutti noi cittadini.

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