L’idea di questo editoriale è di mettere a confronto due punti di vista diversi figli di due distinte esperienze professionali. Riccardo Rossotto ha avuto un’eclettica e intensa vita professionale, nata prima dell’avvento di Internet. Tra le tante iniziative promosse da Riccardo, è importante ricordare il suo ruolo nella promozione e implementazione del codice di autodisciplina pubblicitaria. Giuseppe Vaciago è invece un professionista che ha iniziato la sua carriera professionale nello stesso anno (1999) in cui è arrivato in Rete il motore di ricerca Google. Forse anche per questa ragione ha assistito negli ultimi 15 anni i più importanti Internet Service Provider nazionali e internazionali.

Il confronto prende lo spunto dalle recenti affermazioni di Mark Zuckenberg circa il fatto che Facebook possa e, forse debba, essere considerato una “Media Company”. Riccardo, condividi questa “ammissione” del guru dei Social Media?

Direi proprio di sì. Sul tema ho un ricordo personale che fotografa la quasi banalità del problema e delle sue possibili soluzioni. Eravamo negli anni ‘90, il web stava facendo i suoi primi passi nel mondo civile dopo la sua utilizzazione per scopi militari. Partecipai ad un convegno, a Ferrara, proprio sui temi giuridici posti da questa nuova e rivoluzionaria tecnologia di trasmissione dei dati: senza fisicità, senza territorialità, con una velocità di spedizione tale da rendere praticamente impossibile qualsiasi controllo giudiziario efficace. Come reagire, e parlo di oltre 20 anni fa, a questa novità che rischiava di marginalizzare il diritto positivo conosciuto, soprattutto rendeva arduo il controllo dei dati trasferiti e soprattutto quello sul loro contenuto? Il tema della tavola rotonda a cui ero stato invitato verteva proprio su queste tematiche: come attrezzarci per evitare che l’opportunità di Internet diventasse l’occasione per la costruzione di una zona franca, senza legge, un Far West in cui tutto fosse possibile e nessuno perseguibile per gli illeciti commessi? Le conclusioni del dibattito furono molto semplici e, come dicevo provocatoriamente, quasi banali. Bisognava scegliere. Bisognava avere il coraggio di non fare come invece purtroppo accadde, gli struzzi, teorizzando una soluzione ma non avendo il coraggio di metterla in pratica. Come? Presto detto: Internet è un vettore di informazioni e di contenuti. Dunque riconducibile a due “mestieri” conosciuti e regolamentati da anni nel mondo del off line. L’editore/direttore di un giornale che diffonde informazioni ovvero il libraio che vende libri con i più svariati contenuti. Un social network, allora inesistente, è assimilabile alla prima o alla seconda categoria? Se un editore sceglie di diffondere informazioni firmate dal singolo mittente (o purtroppo addirittura anonime!) attraverso il suo giornale (la piattaforma tecnologica utilizzata), risponderà allora dei suoi contenuti a prescindere dalla circostanza che li conoscesse e li condividesse. Il solo fatto di averli diffusi significa infatti assumersi la responsabilità del loro contenuto. Oppure il social network è un libraio che espone e vende libri scritti ed editati da altri, terzi rispetto a lui, e allora non risponde dei contenuti salvo che dal titolo o dalla sua copertina non sia manifesto un oggetto o una finalità illecita. In questi ultimi 20 anni di esplosione del fenomeno con tutte le conseguenze che sono drammaticamente di fronte ai nostri occhi, e non solo in materia di sicurezza nazionale, ma anche di sicurezza personale e reputazionale, si è scelta una strada mediana, compromissoria. Una mediazione al ribasso. Internet e i suoi protagonisti imprenditoriali sono stati considerati nella sostanza dei “librai” quindi non responsabili dei contenuti diffusi salvo eccezioni di manifesta negligenza nel controllo sui contenuti stessi. La giurisprudenza si è consolidata su tale assunto e la generale deresposabilizzazione ha creato il mostro che oggi angoscia il dibattito politico sul come evitare che la Rete diventi lo strumento della veicolazione delle campagne fomentatrici di odio, di guerre di religione, di notizie false, di distruzione di nomi, immagini e reputazione di cittadini onesti e virtuosi.

E tu, Giuseppe?

Il ragionamento di Riccardo mi ricorda una nota sentenza statunitense del 1991 (Cubby Inc. v. CompuServe) per uno dei primi casi di diffamazione on line. La corte di New York, chiamata a pronunciarsi sulla controversia, ritenne che la figura del provider dovesse essere accostata a quella del “giornalaio, del libraio o del bibliotecario (secondary publishers)”. Credo che Riccardo sottovaluti un aspetto essenziale: se la corte di New York avesse ragionato in modo differente e 10 anni dopo, lo avesse fatto anche l’Unione Europea (Direttiva 31/00) non avremmo mai visto nascere i Social Media. Anche se non sono sicuro che l’assenza dei “social” ci avrebbe fatto vivere peggio, è innegabile che oggi questi strumenti costituiscono uno strumento essenziale di comunicazione e consentono di poter esprimere in modo libero la propria opinione senza restrizioni di sorta. Il sociologo Thomas Mathiesen sostiene che grazie agli UGC (User Generated Content), il mondo è passato da un sistema di comunicazione “synopticon” in cui “the many watch the few” ad un sistema “omnipticon” in cui “the many watch the many” e questo passaggio costituisce una crescita culturale molto significativa per l’umanità.

Riccardo, il mondo dei Social Media cambierà nel prossimo futuro?
L’emergenza terrorismo accelera il processo di responsabilizzazione dei social network. Gli ultimi drammatici attentati costringono il mondo politico internazionale ad abbandonare posizioni di pigro liberalismo normativo e a farsi carico di studiare soluzioni più efficaci nel reprimere l’odio esistente nella Rete e le strumentalizzazioni/manipolazioni delle centrali del terrorismo mondiali che hanno messo in atto utilizzando la Rete e sfruttando la deresponsabilizzazione che regna nel mondo del web. Con la paura di assumere atteggiamenti di tipo censorio alla russa, alla cinese o alla turca, i legislatori dei paesi democratici ed occidentali si stanno rendendo conto di avere le armi spuntate contro l’hate speech imperante su internet. “E’ un problema di democrazia” diceva in questi giorni il Ministro della Giustizia Orlando: “Ciò che è virale diventa verosimile a prescindere che sia vero o falso. Facebook non può più essere considerato un semplice veicolo di contenuti. E’ necessario che si assuma la responsabilità non solo di soggetto che ha pubblicato il messaggio ma anche di soggetto che gli ha permesso di veicolare quel messaggio e di diffonderlo in tutto il mondo”.
E tu, Giuseppe, condividi queste preoccupazioni?
Condivido che il fenomeno del terrorismo stia maggiormente responsabilizzando gli Internet Service Provider. Facebook, Twitter, Microsoft, Google e YouTube hanno stipulato un accordo per la rimozione automatica dei contenuti (video o foto) di terrorismo o particolarmente violenti. In questo modo si dovrebbe riuscire anche ad evitare in modalità preventiva l’inserimento di immagini che potrebbero avere un impatto davvero negativo soprattutto nei confronti delle fasce deboli. Non dobbiamo però rischiare di reprimere, con la scusa dell’emergenza terrorismo, alcune forme di “hate speech” che rappresentano una forma, anche talvolta estrema, di libertà di espressione. Inoltre, sul tema della responsabilità, vorrei fare un distinguo. Nell’era di internet la responsabilità di natura penale per la diffamazione dovrebbe essere valutata con la massima attenzione. Si discute da anni di depenalizzare la diffamazione e penso che questa sia la direzione da percorrere. Non sto ovviamente dicendo che i reati di opinione non debbano essere puniti, ma sono convinto che un risarcimento, anche importante, di natura economica possa essere maggiormente proporzionato rispetto ad una sanzione penale in grado, almeno in linea teorica, di limitare la libertà personale dell’individuo.

Se tutti e due concordate che ci sarà un cambiamento, in conclusione, quali sono i passi da compiere? Partiamo da Riccardo.
Nel prossimo G7 la tematica, pare, sarà messa all’ordine del giorno dei lavori. Evviva! Meglio tardi che mai! Il modello di business di Facebook, come quello anche degli altri social network, è molto semplice e chiaro. Più le persone pubblicano notizie, fotografie e informazioni e suscitano dibattito e aumentano i “like” più la pubblicità sul sito aumenta e aumentano di conseguenza i ricavi della piattaforma. Ci deve essere dunque un link non solo tecnologico, ma anche giuridico tra chi attraverso la diffusione di questi contenuti fa profitto, e chi se ne deve assumere la relativa responsabilità legale. Abbiamo sempre sostenuto e non ci stancheremo mai di farlo che solo una forte ed etica autodisciplina tra i principali service providers mondiali potrebbe offrire soluzioni efficaci per diminuire o far cessare il Far West all’interno di Internet. Ora forse siamo più vicini alla meta. Le tragedie successe non sono state del tutto inutili. Ci auguriamo che il periodo dell’apatia e dell’ignavia sia terminato. Le piattaforme dei social network, quelle famose e quelle meno, devono essere equiparate giuridicamente ai giornali e i proprietari (gli editori), devono rispondere dei contenuti diffusi, reinvestendo parte dei colossali profitti maturati in questi anni in adeguate strutture interne di controllo. La tecnologia se associata “all’occhio umano” può offrire ampie soluzioni per dar vita ad un monitoraggio costante con la immediata ed efficientissima rimozione o oscuramento dei messaggi ritenuti illeciti. Bisogna fare questo scarto di qualità culturale, scevri da crisi di coscienza per atteggiamenti presuntivamente censori. Dobbiamo creare nella Rete, per salvaguardarne gli aspetti positivi, un sistema di responsabilizzazione che imponga un autocontrollo “a monte” dei contenuti diffusi, pena la correità anche penale. Parafrasando il quotidiano Il Foglio, che si è recentemente occupato in prima pagina di questo tema, qui non stiamo parlando solo di social network e della loro qualificazione giuridica, ma stiamo parlando del futuro della nostra democrazia.

Giuseppe, ti ritrovi in questo scenario o pensi che ci possano essere delle soluzioni alternative?
Più che soluzioni alternative, ritengo che ci sia una soluzione di compromesso. Scardinare il framework normativo creato con la e-commerce directive (direttiva 31/00) recepita in italia con il d.lgs. 70/03 è sicuramente azzardato e forse un’utopia, ma è anche vero che una normativa entrata in vigore prima dell’avvento di Facebook, Twitter, Youtube e tutti gli altri, non può fisiologicamente coprire tutte le molteplici sfaccettature che la Rete oggi rappresenta. Ad esempio, è indubbio che il modello di business di queste piattaforme impone una maggiore assunzione di responsabilità, tuttavia è anche vero che imporre una corresponsabilità per ogni contenuto immesso dagli utenti è un tema sul quale ha già egregiamente chiosato il Giudice Magi in una nota sentenza penale che ha, peraltro, visto alcuni dirigenti di Google essere condannati in primo grado per violazione della privacy: “Ad impossibilia nemo tenetur. La piattaforma, per definizione, non è a conoscenza di quelle immagini, né si può pretendere che lo sia, a meno di non configurare a carico dell’hosting provider un obbligo di monitoraggio preventivo del materiale immesso dagli utenti. Obbligo non solo tecnicamente inesigibile, ma la cui enucleazione si scontrerebbe con la normativa italiana ed europea che espressamente prevede il contrario”. Detto questo, qualcosa va cambiato. Ho recentemente visto un bel documentario sulla storia di internet (Lo and Behold) che, oltre ad evidenziare le innegabili derive di questo strumento, ci ricorda che negli anni 90’ veniva rispettata la “Netiquette”, termine che unisce il vocabolo inglese network (rete) e quello francese étiquette (buona educazione). La netiquette è un insieme di regole che disciplinano il comportamento di un utente di Internet nel rapportarsi agli altri utenti attraverso risorse come newsgroup, mailing list, blog, social network. Oggi, il rispetto della netiquette non è imposto da alcuna legge ed è stato progressivamente dimenticato. Sotto un aspetto giuridico, la netiquette è spesso richiamata nei contratti di fornitura di servizi di accesso da parte dei provider, ma non è sicuramente sufficiente. Sarebbe bello ripartire da quelle regole per creare un codice di autoregolamentazione simile a quello che Riccardo ha contribuito a far crescere nel settore pubblicitario. Oltre a questo, ovviamente, è necessario accelerare il processo di aggiornamento della direttiva e-commerce per colmare le fisiologiche lacune di questa normativa.

Link alla fonte: http://www.repmag.it/rubriche/editoriale/item/311-i-social-network-sono-delle-media-company-un-dialogo-a-due-voci.html

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