La lotta tra gli “angoli più bui della Rete” alla conquista della loro libertà di espressione e i “censuratori” dell’incitamento all’odio online sembra declinarsi in nuovi risvolti dal sapore sempre più istituzionale e politico.

I Giganti della Silicon Valley, Facebook, Twitter e YouTube, tuttora stretti nella morsa dell’opinione pubblica per la questione del controllo dei contenuti dei loro siti, hanno chiesto l’aiuto di centinaia di gruppi esterni per capire chi dovrebbe essere bandito e cosa è considerato inaccettabile. Dopo la recente pioggia di polemiche scatenata dai Repubblicani, dai Conservatori e dallo stesso Presidente Trump che tacciano i social media di faziosità, non stupisce che un numero crescente di questi gruppi sia di destra.

Per tutti i social media vale la premessa che come ha affermato Jack Dorsey in una lettera allo staff del 7 giugno scorso Non è un segreto che siamo in larga parte di sinistra, e abbiamo tutti inclinazioni, questo vale per me, per il nostro cda e per la nostra compagnia”. Ciò non comporta necessariamente che i Big della Rete lavorino per contrastare i Repubblicani e, ad oggi, Facebook, Twitter e YouTube stanno correndo ai ripari per curare le relazioni esterne che  come spiega Brandon Borrman, il portavoce di Twitter –  possano metterli in condizione di “beneficiare di altre prospettive sulle questioni sociali critiche” che affrontano. Borrman garantisce tuttavia che chi interviene dal di fuori dell’azienda “non deroga mai alle nostre regole e nessun consulente esterno prende la decisione finale o detta le nostre azioni” e sottolinea che Twitter si sta impegnando per essere più trasparente relativamente ai Terzi che sono coinvolti nel processo.

Per quanto riguarda la decisione su Alex Jones, Borrman giustifica la condotta di Dorsey affermando che lo stesso “non ha preso e non prende personalmente decisioni in materia di esecuzione, si affida alla profonda competenza del team”. Nel caso di specie, forse qualcuno si ricorderà che quando tutto il mondo tecnologico ha bandito dalle sue piattaforme Alex Jones, Twitter è stato l’unico a lasciare Jones intoccato ed il Wall Street Journal ha azzardato che a graziarlo fosse stata una decisione unilaterale di Jack Dorsey. In quell’occasione, in realtà, Dorsey, ha cercato di adottare una condotta la più diplomatica possibile nei confronti di Trump che in questi anni ormai lontani dai tempi di gloria delle primavere arabe in cui il social network era strumento d’elezione di movimenti idealistici  lo ha mantenuto al centro dell’attenzione pubblica, trasformandolo nel suo megafono e scongiurandogli un epilogo da ridotta di giornalisti che parlano di giornalismo. Dorsey ha in prima battuta chiesto privatamente consiglio ad Ali Akbar, un attivista politico conservatore, che gli ha suggerito, malgrado le pressioni mediatiche contrastanti, di non rimuovere dalla piattaforma Jones. In seconda battuta, con un mese di ritardo rispetto a tutte le altre piattaforme, anche Twitter ha infine bloccato Jones, citando una violazione del regolamento interno commessa dal suo comportamento provocatorio.

Il ricorso alle opinioni esterne va di pari passo con altre iniziative adottate dai social media al fine di corroborare le loro difese. Queste Aziende hanno infatti sviluppato delle complesse linee guida interne per disciplinare quali tipi di pubblicazione dovrebbero essere eliminati e hanno inoltre assunto migliaia di nuovi dipendenti per esaminare i contenuti.  Tra il 2017 ed il 2018, YouTube ad esempio ha potenziato il suo programma “Trusted Flaggers” incrementando da 10 a 100 il numero dei gruppi incaricati di segnalare all’azienda i contenuti inappropriati. Peter Stern un manager del Product Policy Group di Facebook ha dichiarato che la società per ogni decisione chiede ormai il parere di una decina di gruppi, ma ha rifiutato di rivelare i nomi di quelli che vengono consultati.

Brian Amerige un ex direttore tecnico della stessa Facebook che, ad ottobre, dopo sette anni nella società, ha dato le sue dimissioni soprattutto perché si opponeva alle modalità di gestione del contenuto considerato discutibile ha spiegato che aveva la sensazione che Facebook stesse cercando di evitare la pubblicazione di qualsiasi contenuto controverso, con l’effetto di limitare la libertà di parola. “Cosa succede – si chiede Amerige, e ci domandiamo anche noi – quando si ha un principio indefinibile e ci si affida ad altri?” La risposta secondo Amerige è che “Si ha una serie di decisioni ad hoc”.

Nonostante i gruppi esterni siano tecnicamente non retribuiti, i social media contribuiscono economicamente ad alcune delle organizzazioni alle quali si rivolgono per ottenere consigli. Facebook e la maggior parte delle aziende si rifiutano di rivelare i destinatari delle loro donazioni, ma sappiamo che Alphabet la holding cui fa capo Google –  contribuisce a più di 200 gruppi terzi, tra i quali la Heritage Foundation, la National Cyber Security Alliance e Americans for Tax Reforms.

Alcuni dei gruppi conservatori lamentano il fatto che per definire ciò che costituisce un “discorso d’odio” i social media facciano troppo affidamento sulla parola del Southern Poverty Law Center. Molte aziende e molti altri gruppi fanno, in effetti, riferimento alla lista dei “gruppi d’odio” stilata dal Southern Poverty Law Center, lista che ne include quasi 1.000 solamente negli Stati Uniti. Keegan Hankes, uno degli analisti senior del Southern Poverty Law Center spiega che il gruppo esercita pressione sulle piattaforme tecnologiche al fine di sopprimere quel determinato contenuto che secondo lo stesso rientra nella definizione di “discorso d’odio” e sottolinea che i gruppi che tacciano il SPLC di avere un impatto esagerato “sopravvalutano l’influenza che abbiamo”.

Mentre negli Stati Uniti i Giganti della Rete cercano di districarsi nello scenario politico alla ricerca di una presunta neutralità attraverso i gruppi esterni, nel Vecchio Mondo, con un comunicato stampa del 4 febbraio c.a., la Commissione Europea dichiara che i risultati della quarta valutazione del “Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online” adottato nel maggio 2016 dalla Commissione europea e da quattro colossi dell’informatica (Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube) sono molto positivi. Oggi le società informatiche valutano entro 24 ore l’89 % dei contenuti segnalati e rimuovono da Internet il 72 % dei contenuti ritenuti illecito incitamento all’odio, contro il 40 % e il 28 %, rispettivamente, nel 2016.  A tale riguardo, Vĕra Jourová, Commissaria europea per la Giustizia, afferma di aver trovato il modo giusto per gestire l’illecito incitamento all’odio online “grazie all’istituzione, in tutta Europa, di una norma su come affrontare questo grave problema e, nel contempo, tutelare appieno la libertà di espressione.”

Gli effetti della Rete sono ancora lungi dall’essere privi di indirizzo politico e la democrazia del Web è un concetto ancora in divenire, eppure Michael Beckerman presidente della Internet Association che rappresenta le aziende del settore nelle controversie legali ci rassicura sottolineando che “nel contesto di tutte le altre fonti di informazione disponibili per le notizie, nessuna altra piattaforma in nessuna altra fase storica ha consentito un simile pluralismo di voci”.

Comments (1)
  1. Piero (reply)

    8 Febbraio 2019 at 19:40

    Ottimo lavoro, Carola ! E’ interessante sapere chi ci sta manipolando sui social e come sono attrezzati. Abbiamo superato George Orwell e il suo famoso romanzo 1984. Siamo sempre stati spiati ma con le nuove tecnologie ancora di più ed ancor di più in profondità. Chissà a quale Società futura ci portano questi inquietanti aspetti.

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