Il gesto é breve, veloce, istantaneo. Inversamente proporzionale all’importanza della conseguenza che crea. Generosità vs Bisogno. La mano che incontra un’altra mano; la mano che firma un assegno o un bonifico bancario; la mano che, con quel sintetico ma significativo gesto, crea un ponte tra i più fortunati e i meno.

In un contesto politico e sociale dove il Pubblico arretra di giorno in giorno, la sussidiarietà privata, la Nostra, diventa sempre più importante. A volte, sempre più spesso, decisiva! Siamo passati in pochi anni da un mondo in cui il Pubblico si occupava istituzionalmente, sia a livello nazionale sia a livello locale, dell’assistenza ai “poveri”, con la partecipazione importante ma non strutturata dei privati, ad un modello di welfare (sì anche questo è welfare, questa parola inglese che sintetizza una delle chiavi di volta del nostro “stare insieme” pacifico) in cui, con l’alibi della crisi economica, ma, in realtà, come in Italia, per pessima gestione delle risorse pubbliche, la responsabilità economico finanziaria e gestionale è passata di fatto sulle spalle dirette dei privati. O almeno, meglio, di quei privati dotati di sensibilità sociale, attenti e dediti alla concretizzazione della fratellanza-solidarietà vera, quella, lo ricordiamo innanzitutto a noi stessi, della Rivoluzione Francese, quella posta tra i tre fondamentali valori del nuovo mondo nato proprio in Francia alla fine del XVIII secolo: Libertà, Uguaglianza e Fratellanza.

Tornando però a quel piccolo ma importante gesto del donare, emerge subito un tema più ampio, complesso, di difficile soluzione. Sorprendente, forse, per molti che lo ascoltano per la prima volta. Quando ciascuno di noi toglie dalle proprie tasche una moneta o un biglietto di carta, decide di privarsi di una certa quantità di denaro che regala ad un terzo che reputa degno di riceverla. Ad un angolo di una strada, ad un semaforo, sul sagrato di una chiesa, il rapporto è diretto, immediato, efficacissimo. Il denaro passa da una mano ad un’altra mano e arriva, in un centesimo di secondo, nelle tasche del bisognoso. Deciderà poi lui come utilizzare il dono. Quel regalo diventato tutto suo e tutto da utilizzare a sua discrezione. Il donante non ha dubbi (salvo le eccezioni di bambini che sappiamo porteranno il dono a casa o, peggio, al loro “datore di lavoro”!) sul pieno e autonomo uso della somma destinata. Il ragionamento cambia, ed è molto cambiato proprio in coincidenza con l’aumento della presenza di iniziative solidali private a supporto e sostituzione dell’arretramento del Pubblico, quando il destinatario della donazione non è direttamente il bisognoso ma un intermediario, più o meno professionalizzato, organizzato, onesto ed efficiente. Tema tutt’altro che semplice.

Riflettiamoci un attimo: verificate quanti interrogativi e dubbi potrebbero nascervi in testa sapendo che il vostro dono potrebbe non finire subito, direttamente e fisicamente, nella mano del destinatario ma iniziasse un percorso per arrivare, auspicabilmente, nelle tasche del destinatario e, di nuovo auspicabilmente, quel destinatario scelto da voi e non da un altro!

Il nocciolo delle tematiche sulle organizzazioni dedicate al cosiddetto social business, risiede proprio nella raccolta fondi, denominata con il termine inglese Fund Raising. Nel modello organizzativo prescelto; nella professionalità delle risorse dedicate; soprattutto nella percentuale della struttura dei costi dell’intermediario rispetto alle somme raccolte dai donanti. Dal 100% che si verifica nell’esempio citato (donazioni dirette, da soggetto donante a soggetto destinatario con il singolo euro che posso constatare con i miei occhi finisce nelle tasche di chi ho scelto come beneficiario) a modelli organizzativi con percentuali molto ma molto inferiori. Come citava recentemente il quotidiano La Stampa, in certi casi, il costo dell’organizzazione della raccolta fondi raggiunge la soglia dell’80% delle somme incassate, il che significa che quel beneficiario, da noi individuato, si vedrà consegnare come nostro dono soltanto il 20% del nostro iniziale auspicio – desiderio – volontà.

Il tema è complesso, rischia anche derive demagogiche, e pertanto necessità di un approfondimento, possibilmente lucido e visionario in senso virtuoso. Pickett vuole provarci.

La “fotografia” del bisogno e le opzioni per provare a risolverlo

Inutile fare i demagoghi velleitari. Anche la solidarietà deve essere professionalizzata. Non si può pensare, come qualcuno ogni tanto fa, più o meno strumentalmente, di disintermediare tutto il sistema. L’unico modo per evitare abusi, arricchimenti indebiti, corruzioni? Abolire le strutture che si occupano di razionalizzare le donazioni private incanalandole verso grandi progetti di solidarietà internazionali o nazionali.

Pickett non crede che la soluzione possa essere questa. Anche nel sociale, nell’organizzazione degli aiuti ai bisognosi, è necessario immaginare un modello organizzativo che governi la complessità di questo settore, formalmente caratterizzato da imprese “non profit” ma sostanzialmente costruito sul lavoro, la generosità e il contributo di migliaia di addetti, non tutti – aggiungiamo noi giustamente – volontari. Pickett crede fermamente sia necessario uscire dall’ipocrisia (una volta la si chiamava catto-comunista) per cui se ci si occupa di solidarietà non bisognerebbe mai parlare di soldi, di stipendi, di investimenti, di strutture aziendali. A nostro parere, bisognerebbe eccome! Anzi bisognerebbe parlarne di più in modo più trasparente, concentrandoci sulla sostenibilità dei progetti e cercando di evitare il velleitarismo guascone di chi non fa i conti con le sue possibilità economiche, creando danni.

Il tema vero è che bisogna parlarne in modo qualitativamente diverso. Più responsabilizzante (gestisco denaro altrui destinato a terzi!) e bisognoso di un approccio umano diverso e più virtuoso.

Dal 2008 al 2013 – ci ricorda sempre La Stampa – il nostro paese ha stanziato per la Cooperazione Internazionale – 2.9 miliardi di euro! 600 milioni all’anno per 5 anni! Siamo al quarto posto in Europa dopo Germania, Francia e Regno Unito. Siamo sotto la quota sancita dall’Ocse che prevede per i paesi membri una percentuale annua fissa dello 0.7% da calcolarsi sul PIL (Prodotto Interno Lordo). Noi siamo allo 0.16%, ma comunque a 600 milioni di euro all’anno. L’80% dei 135 miliardi di dollari che ogni anno le organizzazioni internazionali, sotto l’egida dell’Onu destinano ai bisognosi, si perde spesso per strada. Alimenta strutture, finisce nelle tasche dei governanti corrotti dei paesi beneficiari, paga, a volte, stipendi da favola, a presunti manager, finanzia “vite di lusso” per pochi addetti ai lavori. E’ diventata insomma una piovra autoreferenziale che crea mostri di iniquità nella quasi totale indifferenza del mondo dei donanti. C’è rassegnazione, quasi questo modello fosse immodificabile. Se vuoi occuparti di solidarietà, il modello organizzativo è quello, poche storie! 4 euro su 5 donati servono per far sopravvivere … bene e gestire le organizzazioni che si occupano, forse sarebbe più opportuno dire … si dovrebbero occupare, di far avere ai bisognosi i frutti della generosità dei più fortunati.

Dal macro al micro: anche in Italia tale rischio di deriva autoreferenziale da parte degli enti intermediari è alto. Ci sono esempi virtuosi e altri meno.

Come riuscire a rompere l’omertà del silenzio, invertire il trend, darsi delle regole virtuose?

L’uomo è al centro del problema. L’analisi di alcuni importanti casi concreti, dimostra come, dopo una fase di avvio virtuosa, con grande attenzione ad efficientare i costi per permettere un trasferimento di fondi rilevante ai destinatari finale, la macchina, e cioè il modello organizzativo, si “incarta”. Crescono gli stipendi, i rimborsi spese, i costi di gestione. Subentra quasi un lassismo che fa perdere di vista gli obiettivi strategici dell’ente. Sembra quasi, e questo è un aspetto psicologico delicatissimo che sfidiamo ciascuno di voi ad affrontare davanti al proprio specchio, che, superata la fase pioneristica e passionale dell’iniziativa sociale, i protagonisti si legittimino un cambiamento confessandosi così: “Bene, ora ci meritiamo una giusta ricompensa, una restituzione del tempo/denaro dedicato a questo progetto”. Di lì parte una modalità nuova e perversa che non ha più il focus concentrato sul portare il massimo delle risorse raccolte al beneficiario finale, ma che inizia a modificare la lista delle priorità. Si affitta o addirittura si compra una nuova sede, con un adeguato arredamento. Si rivede la politica salariale degli addetti. Si viaggia di più, si mangia meglio, si frequentano hotel più prestigiosi e costosi. Si inizia, in altre parole, il processo che porta alla vergognosa percentuale dell’80% delle risorse raccolte per i bisognosi destinata a costi di struttura!

Pickett non vuole fare del catastrofismo: si limita a segnalare una pericolosa deriva da arginare e contrastare. Come? Proviamo a pensarci su un attimo cercando di individuare soprattutto la lista delle priorità dei possibili rimedi.

  • Personale adeguato e professionalizzato: inutile illudersi. I professionisti “bravi” costano e devono essere pagati ma nello stesso tempo misurati sui risultati ottenuti con il meccanismo premiante del risparmio raggiunto. Più la struttura è efficiente e veramente social con una quota percentuale costi bassa, più il personale esistente ha diritto a degli incentivi.
  • Costi della sede – spese di gestione – costi della produzione: chi sceglie di operare in questo settore deve sentire la missione anche dal punto di vista etico, adeguando i suoi bisogni materiali di vita quotidiana a questa mission speciale. La sede deve rimanere sobria ed efficiente. L’arredamento funzionale ad essa. I costi di viaggio e di soggiorno, se necessari, idonei e controllati. Tutto quanto in eccesso diventa superfluo, sottrae risorse concesse e destinate non all’intermediario ma ai beneficiari finali.
  • Uffici da “favola”, arredamenti di lusso, grandi alberghi, pranzi luculliani da Master Chef non devono far parte del vocabolario gestionale degli intermediari di questo settore. Si stanno costruendo, a fatica, dei benchmark internazionali per offrire esempi virtuosi agli addetti ai lavori, auspicando che si adeguino. Bene, oggi, una struttura Social che si occupa di progettualità nell’ambito di iniziative di solidarietà/fratellanza, pur dovendo puntare a professionalità serie ed adeguate, deve raggiungere una struttura dei costi non superiore al 20-25% di quanto raccolto dai donatori. Ci sono esempi particolarmente virtuosi anche al 15% … con quindi l’85% che finisce nelle tasche dei soggetti, non dimentichiamolo mai, a cui il donatore ha voluto fare la donazione. Sono ancora pochi ma esistono e si spera che proliferino.

*** *** ***

Sarebbe bello che tutto ci autoresponsabilizzassimo a controllare che questo trend sia seguito proprio quando stiamo per operare la scelta del destinatario del nostro dono.

I fund raiser ci insegnano (Pickett ha partecipato con il suo socio e amico Roberto Randazzo a diverse esperienze nel mondo della Raccolta Fondi presenziando spesso, come relatore, al Congresso di Castrocaro, il più importante summit nazionale del settore) che la nostra scelta di destinazione della nostra donazione avviene principalmente in base ad una spinta emozionale; poi per fiducia in questa o quella persona coinvolta nell’impresa intermediaria; infine per ragioni fiscali. Bene, Pickett crede che in un domani, auspicabilmente non molto lontano, sceglieremo tutti la nostra “buona causa” anche per la capacità dell’intermediario di permetterci di fare arrivare al “nostro destinatario” la percentuale più alta possibile della nostra donazione.

Se questo ragionamento fosse condiviso, potremmo incominciare davvero a sollecitare il nostro legislatore a introdurre nella specifica normativa del settore, incentivi fiscali e finanziari agli enti intermediari virtuosi, a quelli che stanno dentro il tetto del 25% dei costi, a quelli che evitano la facile deriva della pigrizia autoreferenziale, non perdendo mai il “grip” sulla missione strategica del loro ruolo.

L’essere umano, lo sappiamo, è contraddittorio di per sé: associa valori positivi a tendenze negative. Se non sollecitato e controllato, rischia sempre scorciatoie basate sulla furbizia egoistica e non sulla intelligenza visionaria. Anche nell’industria della solidarietà questa fotografia emerge in modo netto. Sta a noi invertire il trend, dare segnali e offrire comportamenti virtuosi, controllando e selezionando gli enti a cui valga davvero la pena affidare la gestione della nostra generosità, se esistente.

Si vive meglio ricevendo un sorriso da un bambino a cui abbiamo regalato un momento di felicità. Concentriamoci sull’obiettivo che ciò avvenga e avvenga anche molto di più, grazie ad un “netto” nelle loro tasche più corposo di quello attuale.

Comments (1)
  1. Andrea Bona (reply)

    23 Febbraio 2017 at 10:52

    Caro Pickett, condivido i pensieri che hai espresso nell’articolo sul Funding Raising e sulle criticità in generale nella gestione dei fondi raccolti, spesso cattiva e soprattutto non rispondente alle aspettative dei donatori.

    Uno dei problemi è che, in sostanza, dopo la comunicazione iniziale che il donante riceve e che lo spinge ad effettuare la donazione, difficilmente esiste traccia evidente di quale fine facciano i fondi.

    Occorrerebbe forse che le organizzazioni beneficiarie, definite “Onlus” e quindi “non lucrative”, fossero costrette a dichiarare un parametro in tutte le proprie comunicazioni : quella che potremmo definire “l’efficienza” dell’operazione, cioè la percentuale di fondi arrivati ai “destinatari”. Un’evidenza della misura dell’efficienza e compliance da indicare sulle richieste di fondi, cioè “etichettare” le organizzazioni come si fa sui prodotti (tipo “Made in Itay”, dovremmo studiare un indicatore della compliance).

    Revoche di accreditamento dello status di Onlus al venir meno dell’efficienza? Controlli da terzi indipendenti? Certo, ma per assurdo costano anche questi e chissà se funzionerebbero.

    Gabibbi, Gabanelli e volontari competenti abbondano nel mondo. Ma milioni di “rivoli” sono difficili da controllare. penso però che un’informazione ai donatori sarebbe fondamentale per indirizzare correttamente i flussi verso i migliori gestori, vista la buona fede dei donatori e la possibile cattiva fede di chi successivamente ne approfitta.

    Andrea

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