Nel dibattito serio e approfondito su come immaginare di spendere lo stock di finanza che, prima o poi, e nella misura tutta da verificare, pioverà sul nostro bizzarro Paese, si stagliano alcune voci anticonformiste da valutare con attenzione.
Al di là di pianificare interventi nell’ambito delle Guide Lines fissate da Bruxelles, ad esempio per il MES e per il Recovery Plan, una parte, per la verità, per ora minoritaria, ritiene di “valorizzare” i tragici effetti della pandemia per provare a cambiare in meglio il modello economico esistente, immaginandone uno diverso e sostanzialmente più giusto.
Insomma, da una tragedia e dalle sue rovine ricavarne una opportunità!
Mi riferisco a quel filone di pensiero sociale ed economico che in Italia vede uno dei suoi più attivi e visionari protagonisti nel Forum sulle Disuguaglianze e Diversità, di cui Enrico Giovannini è il portavoce; in Francia individua il suo alfiere nell’economista Thomas Piketty, autore, nel 2013, del famoso saggio “Il capitale del XXI secolo” considerato da molti come un aggiornamento innovativo dell’opera di Karl Marx.
Ho provato a confrontare il contenuto del nuovo libro di Piketty, appena uscito con l’edizione de La Nave di Teseo “Capitale e ideologia”, con le tesi esposte da due autorevoli esponenti del citato Forum sulle Disuguaglianze, Fabrizio Barca e Patrizia Luongo nel loro saggio “Un futuro più giusto” (Il Mulino, 2020) per comprendere meglio quanto di probabilmente utopico ci sia nei modelli di convivenza futuri prospettati dagli autori e quanto, invece, di davvero realizzabile nei loro progetti nel breve-medio termine.
Le conclusioni che ho tratto, ovviamente in un divenire di pensiero, continuo, combattuto ma arricchente, mi portano a chiedermi-chiederci “Quanto vogliamo davvero cambiare il nostro sistema di vita?”
E anche se volessimo, perché scontenti e preoccupati per una disuguaglianza ormai inaccettabile “Quanta voglia di lottare abbiamo per almeno provarci?”.
Ci accontenteremo di un pigro ritorno alla normalità pre-Covid oppure faremo tesoro di tutte le carenze internazionali e domestiche che si sono evidenziate nel mondo, un mondo in cui i sempre più pochi ricchi sono sempre più ricchi e i sempre più poveri sono “alla canna del gas”.
L’analisi di Fabrizio Barca parte dall’elencazione dei fattori che hanno aggravato di per sé gli effetti della crisi Covid-19.
Sono 9 e li ritrascrivo pari pari nella scansione esposta dagli esponenti del Forum.

1. I ritardi e le debolezze dei metodi di ricerca

2. Una cooperazione internazionale ed europea arrivate sfiancate all’appuntamento

3. Un terzo dell’occupazione privata precaria o irregolare

4. Dieci milioni di adulti italiani senza i risparmi per reggere tre mesi senza reddito

5. Un terzo delle piccole e medie imprese vulnerabili e sorrette da bassi salari

6. Un sistema sanitario indebolito prima di tutto nei suoi presidi territoriali e piegato alle logiche della privatizzazione, centrate non sul benessere collettivo ma sul profitto di pochi

7. Un sistema di welfare privo di una logica universale e schiacciato in una dimensione di contenimento del disagio, non di emancipazione delle persone e tra esse le più fragili e in difficoltà

8. Una massa di migranti senza diritti

9. Amministrazioni pubbliche disabilitate a dialogare con i cittadini e ad esercitare discrezionalità

Sarebbe paradossale – scrive Fabrizio Barca – di fronte a tutto questo non utilizzare lo shock per cambiare rotta. Eppure è ciò che rischia di avvenire”.
Il Forum ha provato a dare un contributo progettuale al governo. In un dossier denominato “Durante e dopo la crisi: per un mondo diverso” ha individuato 5 obiettivi strategici di cui riporto i titoli:

a)  Si deve accrescere l’accesso alla conoscenza perché qui sta lo scarto che può rimettere in moto creatività, mobilità sociale e innovazione. Per farlo bisogna valorizzare gli asset pubblici quali l’università, la scuola, le imprese pubbliche, la gestione pubblica delle risorse digitali.

b)  Si deve rendere pagante la nuova domanda di servizi e beni fondamentali che può dar vita a buone imprese e buoni lavori nella cura delle persone, nell’educazione, nella casa, nella cultura, nella mobilità, nella filiera agro-silvo-pastorale e alimentare, nell’energia, nel turismo, investendo tutte le aree marginalizzate con strategie partecipate di territorio.

c)  Si deve restituire dignità e potere al lavoro migliorandone la tutela e favorendone la partecipazione strategica.

d)  Si deve aggredire la crisi generazionale accrescendo il potere dei giovani, non solo sul fronte educativo, ma anche in termini di ricchezza su cui contare nel passaggio all’età adulta e di abbattimento degli ostacoli nell’accesso a ruoli chiave nelle classi dirigenti del paese.

e)  Si deve realizzare una “rivoluzione operativa” delle pubbliche amministrazioni che sfrutti l’opportunità irripetibile del rinnovamento generazionale che sta per avvenire tra le sue fila.

Per noi non è stata una novità – ha commentato Fabrizio Barca – scoprire che un quinto della popolazione adulta – circa 10 milioni di persone – non ha risparmi sufficienti per vivere per tre mesi senza reddito. E che in Italia ci sono 6 o 7 milioni di lavoratori precari o irregolari quindi non coperti da tutela sociale. E che il sovraffollamento abitativo è tre volte più alto rispetto ai grandi paesi europei. Ci sono esplose davanti agli occhi diseguaglianze di ogni genere che non possiamo più fingere di non vedere”.

Le cause di questo disastro sono per Fabrizio Barca, molteplici: “Siamo il Paese europeo con la più alta percentuale di disuguaglianza ascrivibile a fattori ereditari: svantaggi famigliari, di istruzione e ricchezza, si combinano nel tagliare le gambe ai ragazzi meritevoli. Un solo dato. Se si nasce nel 20% meno ricco della popolazione, si ha tre volte di più la possibilità di rimanerci rispetto a chi nasce nel 20% più ricco”.

Il Forum delle “Disuguaglianze e Diversità” auspica che questa piattaforma programmatica diventi la base di ragionamenti anche con idee non proprio uguali e con proposte magari complementari.
L’importante è affrontare il tema subito, con unità di intenti, per capire con quali alleanze e con quale mobilitazione organizzata promuovere questa nuova visione della società, individuando i soggetti politici idonei a raccogliere questa sfida.
Dal canto suo Piketty sviluppa il suo corposo tomo (1200 pagine) come al solito basato su una impressionante mole di dati, su due livelli. Il primo ha l’obiettivo di ampliare lo sguardo per confrontare tra loro diverse società ed esperienze storiche: dall’Africa all’America Latina dall’Ancienne Regime all’Unione Sovietica. Il secondo nel riflettere sui modi in cui ogni società ha giustificato o giustifica l’esistenza di disuguaglianze.
Piketty individua la peculiarità della nostra epoca in una ideologia che definisce “proprietarista e cioè fondata sulla proprietà privata. Una ideologia che aiuta a mascherare la realtà dei rapporti di produzione: dietro ai suoi elevati principi di uguaglianza delle opportunità e di selezione meritocratica, il patrimonio di valori ereditato dalla Rivoluzione Francese, la narrazione proprietarista, secondo Piketty, nasconde dei vistosi squilibri economici.
Scrive l’economista francese che, questo che è ormai un trend apparentemente irreversibile, è rappresentato dal crescente scarto tra ricchezza e povertà che potrebbe porre al capitalismo occidentale un drammatico problema di legittimazione.
Piketty si pone l’obiettivo, con il suo progetto, di superare il capitalismo per raggiungere una nuova forma di “socialismo partecipato”.
La ricetta fornita dal professore francese per invertire la rotta prevede una forte tassazione dei redditi e delle ricchezze accompagnata da forme di “proprietà sociale”.
Nel testo emerge una chiara opposizione a coloro che vedono nell’economia il solo motore della Storia: la visione di Piketty è centrata sulla capacità delle idee di muovere il mondo.
Idee che finora hanno giustificato l’ordine esistente potrebbero essere sostituite con idee che, se necessario, lo possono mandare in frantumi sostituendolo con un nuovo modello di coesistenza.
Il capitalismo è come un percorso che incontra tanti bivi.
Ogni epoca è caratterizzata – scrive Piketty – da possibili punti di biforcazione in cui la Storia potrebbe andare in una direzione come in un’altra: in ogni momento ci sono state, ci sono e ci saranno, innumerevoli alternative. Tutto sta nel saperle cogliere”.
Lascio ad ognuno di voi, ovviamente, ogni giudizio in merito a tale tesi.
Però è significativo che all’interno dell’Europa attuale, con tutti i suoi problemi, una parte dell’establishment, quella più illuminata non c’è dubbio, inizi a porsi in concreto il tema di come uscire da una spirale negativa che potrebbe mettere a rischio, nel breve termine, le nostre democrazie.
Lo scrivo ormai da tempo: non sarà più possibile gestire nei prossimi mesi la rabbia e il malessere derivanti dalle ingiuste disuguaglianze esistenti con una pioggia di piccoli sussidi generalizzati o, peggio, con l’ordine pubblico.
Bisognerà intervenire sulle radici del problema, sulle sue cause originarie, prima che sia troppo tardi.
Piketty, Barca e Giovannini (che ho richiamato spesso in recenti approfondimenti su questo tema) ci stanno provando.
Non si limitano a gridare “al lupo”, fanno proposte, articolano programmi e piattaforme riformiste.
Ma noi cittadini abbiamo davvero voglia di provarci?
Se sì, come si legge nel documento “Durante e dopo la crisi: per un mondo diverso” confrontiamoci e iniziamo a lavorare sul serio per dare esecuzione, magari declinata in modo anche diverso rispetto ai pensatori citati, agli stimoli che ci forniscono queste menti illuminate.

Comments (2)
  1. Emilio Bertolani (reply)

    29 Giugno 2020 at 19:52

    Si può essere d’accordo in linea di massima, ma bisogna passare alla fase due, cioè dalle idee alla pratica. Questo è il nodo gordiano che ha vanificato nel passato molte valide proposizioni.

  2. Riccardo Tosi (reply)

    3 Luglio 2020 at 0:32

    Sono i capitalisti che non vogliono, più che non sanno, salvare il capitalismo. Ho detto a più riprese che questo è capitalismo becero, soprattutto miope. Si mangia la coda senza accorgersene. Come fa a reggere, crescere e svilupparsi se ghettizza anziché aiutare, se non fa crescere assieme ad esso il benessere, il potere d’acquisto di “tutti” i Paesi. Non sono un economista e quindi la ricetta può sembrare semplicistica, ma se i consumi continuiamo a perpetuarli noi tre perché altri non possono non solo il capitalismo rinsecchisce ma non può che generare malcontento e ribellione in tutti i Paesi, non solo in quelli sottosviluppati! E se, come credo, le linee guida correttive passano anche da decisioni politiche e i politici sono quelli che stanno governando gran parte del mondo beh, il mio inguaribile ottimismo finisce in pattumiera. E’ totalmente assente il senso dello Stato e lo confermano i continui punzecchiamenti, i dispettucci, le ripicche che contraddistinguono, anche in una situazione drammatica come l’attuale, il loro comportamento irresponsabile. Non esiste situazione tragica che possa arginare la spasmodica ricerca del consenso popolare e personale. Si specula costantemente sulla buona fede o l’ignoranza delle masse meno abbienti, nel frattempo i ricchi si arricchiscono e gli evasori evadono bellamente. Ed è la faccia meno attraente del capitalismo.

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