Dieci anni fa, il 29 giugno 2007, i primi iPhone o telefonini mobili intelligenti, venivano immessi sul mercato. Lunghe file di appassionati attendevano l’apertura mattutina degli Apple store per potersi comprare l’ultima genialata di Steve Jobs. Avevano passato la notte insonne, in coda, insieme a tanti coetanei e non, pur di essere i primi a tornare a casa o al bar con gli amici a gloriarsi, in pubblico, di essere possessori/proprietari di un piccolo aggeggio, simile, come hardware, ad altri già visti e sperimentati prima, come le macchine fotografiche o i telecomandi, ma con delle caratteristiche, almeno stando alla presentazione di Job incredibili, inimmaginabili, mai viste prime.

Oggi, a distanza di dieci anni esatti da quel giugno 200, Pickett nutre qualche dubbio che gli utilizzatori/acquirenti di quel “telefonino” avessero la esatta percezione della rivoluzione che quel piccolo e apparentemente innocuo oggetto si sarebbe portato con se nella vita di ciascuno di noi. Nel bello e positivo e nel brutto e negativo. Un piccolo elettrodomestico di 10 centimetri di lunghezza per 4/5 centimetri di larghezza che sarebbe diventato la protesi tecnologica del nostro corpo. Il compagno permanente, a volte compulsivo, della nostra giornata di lavoro, di svago e di attività varie, informative e conoscitive. Sempre in mano o in tasca o comunque a facile raggiungimento tattile o visivo. Insomma, a parere di Pickett e parafrasando una famosa frase di Winston Churchill, “mai, nella storia dell’umanità, un oggetto così piccolo e apparentemente insignificante aveva cambiato così rilevantemente le nostre vite e le modalità delle nostre relazioni e dei nostri linguaggi.

 

L’ESORDIO E GLI UCCELLI DEL MALAUGURIO

A fronte della consapevolezza, quasi arrogante, di Steve Jobs durante la presentazione del prodotto il 9 gennaio 2007…. “Di tanto in tanto arriva un prodotto rivoluzionario capace di cambiare ogni cosa”…” Oggi noi della Apple reinventiamo il telefono. Lo chiameremo iPhone”…” Abbiamo levato tutti i tasti: al loro posto c’è un grande schermo che funziona in modo magico”…..” Il display è sensibile al tatto: si comanda con tutte le dita e può riconoscere i gesti”… affermazioni e promesse forti, gridate con la sicumera di chi sa di aver inventato qualcosa di grande ed esplosivo; a fronte di tale consapevolezza, dicevamo, i competitors reagirono male sottostimando il neonato prodotto della Apple. Steve Balmer, ad esempio, allora amministratore delegato di Microsoft, l’azienda leader del settore, disse, in una intervista ad un quotidiano americano testuali parole: “Non c’è alcuna possibilità che l’iPhone possa ottenere una quota di mercato significativa.” Ogni commento è superfluo! Microsoft reagì comprando Nokia nel 2013: un bagno di sangue. Il mercato dei PC via via crollò letteralmente sostituito da questo giocattolo così facile da usare e ricchissimo di servizi e opportunità conoscitive.

I numeri del boom della creatura di Steve Job e di tutte le varie tipologie di iPhone succedutesi nel tempo anche con marchi di altri competitors, sono impressionanti se letti oggi a distanza di dieci anni soltanto dalla sua scoperta. Di smartphone, di tutte le marche, ne sono stati venduti 7.1 miliardi di pezzi dal 2007. Con il marchio della Apple 1.2 miliardi. La società di Cupertino, dopo anni molto difficili, oggi capitalizza alla borsa di New York oltre 800 miliardi di dollari di valore. Fatto 100 il numero degli smartphone in circolazione il 71% è costituito da Android, il sistema operativo lanciato da Google nel 2008 per arginare l’uragano commerciale della “mela morsicata” e adottato dai grandi players asiatici come Samsung e Huawei. Il 19.2% da iPhone Apple.

“Siamo cinque anni avanti agli altri” aveva dichiarato Steve Job nella famosa e indimenticabile presentazione del gennaio del 2007: aveva sbagliato pronostico in termini temporali – gli “altri” arrivarono prima, vedi Google con Android- ma aveva centrato in pieno il suo sogno. Aver realizzato un prodotto che avrebbe rivoluzionato il mondo anche dal punto di vista culturale e non solo tecnologico.

 

NOI E LO SMARTHPHONE

Ne siamo diventati schiavi. Consapevoli ma sempre schiavi. Lo maneggiamo, secondo una recente indagine realizzata dalla società Dscout, 2.617 volte al giorno, come nessun altro oggetto. Lo usiamo, spesso in maniera compulsiva, in media, per almeno quattro ore non consecutive al giorno. Lo teniamo sempre o quasi accesso. Secondo la ricerca citata l’87% di noi lo accende o consulta almeno una volta per notte. Siamo diventati ansiogeni: viviamo con la paura che ci scappi qualcosa. Di non essere informati in diretta di quello che ci accade intorno, pubblico o privato che sia. Con un nuovo linguaggio sincopato, composto da faccine, da neologismi sorti per ridurre il numero delle lettere di ciascuna parola di cui abbiamo bisogno, dei mostri lessicali insomma, cerchiamo di essere sempre connessi, di stare sul pezzo, di “rimanere dentro la telepatia elettronica” come l’ha definita uno dei primi grandi protagonisti del mondo della illegalità digitale, Edward Snowden. Ci scambiamo foto, messaggi scritti e orali, filmati con una ossessività in molti casi ormai patologica.

Soprattutto, e qui risiede la maggior preoccupazione di Pickett (senza dubbio un reo confesso di far parte di questa tribù di folli-sempre-connessi), l’iPhone ha inciso, proprio per questa sua capacità di schiavizzare l’utilizzatore, sui nostri comportamenti, sulle nostre modalità di relazionarci con gli altri.

Sapete bene a cosa ci riferiamo: bastano due esempi quotidiani ahinoi! Una cena tra un uomo e una donna in un ristorante romantico (nella classica situazione cioè del corteggiamento, della complicità della partecipazione di sguardi, occhiate, gesti, confronti dialettici) con entrambi i protagonisti impegnati a smanettare sul proprio telefonino, fregandosene bellamente del partner! Anzi sorridendo e spesso manifestando gioie alla lettura delle risposte date loro dagli interlocutori digitali. Seconda situazione: una famiglia tradizionale riunita a pranzo o cena (nel tradizionale momento quotidiani dello scambio di aggiornamenti sulle proprie vite, sui problemi, sulle felicità reciproche o individuali) con i ragazzi diversamente impegnati con i propri device che rispondono distrattamente alle domande di rito degli adulti, anche loro spesso disturbati o distratti dai telefonini.

Un disastro relazionale ed educazionale che non ci sta aiutando a vivere meglio insieme le nostre comunità.

Il mondo oggi è quasi tutto interconnesso: Facebook da solo ha 2 miliardi di contatti. Bene, tutta questa rutilante giostra di informazioni e di dati che circolano ogni giorno, ogni ora delle nostre giornate, attraverso il globo, sta creando grandi solitudini. Grandi e disperate patologie di essere umani soli davanti al proprio device senza più alcuna relazione fisica o dialettica con i propri consimili. La società più interconnessa nella storia dell’umanità sta partorendo degli essere umani che scelgono di stare da soli davanti agli schermi dei propri gadget elettronici. Il tutto, tra l’altro, con un’ ansia di velocizzare il circuito di circolarizzazione dei dati che si porta dietro poca riflessione, poco pensiero e molta “spazzatura intellettuale” derivante dal pensare- dire- battere sui tasti sempre in diretta senza un attimo di pausa e di concentrazione.

 

BUON COMPLEANNO ALLORA, MA……

Proprio questo quadro, credeteci non troppo enfatizzato, porta Pickett ad alcune considerazioni generali. Buoni dieci anni, caro iPhone, buon compleanno, ma cerchiamo di leggere meglio cosa ci sta succedendo dentro e intorno a noi a causa sua.

Da un lato, questa corsa folle verso la connettività Sempre e Comunque, sta costringendo anche i capi azienda delle grandi multinazionali hi-tech ad una rivisitazione del modello. Zuckerberg (Facebook) va in giro per gli Stati Uniti cercando di capire meglio i problemi reali dei Loosers e lancia proclami sulla necessità di una nuova cultura nell’uso dei Social Network; Bezos (Amazon) sostiene l’importanza della carta stampata e della artigianalità dei vecchi mestieri di nicchia e qualità; Tim Cook (Apple) si lancia in una grande e suggestiva sfida, se veritiera: non facciamoci schiavizzare dalla tecnologia. Non vogliamo uomini che pensano come i computer o i robot, senza valori o senso della solidarietà. Recuperiamo le nostre radici intellettuali e umane, adoperando e gestendo la tecnologia, non subendola.

Se non si trattasse di pure operazioni di marketing strategico volte a migliorare l’immagine di manager o aziende votate esclusivamente alla massimizazione del profitto (“C’è qualcosa che conta oltre al successo materiale” è il mantra che ha girato e gira per Silicon Valley) saremmo di fronte ad un ripensamento importante da parte dei guru del mondo digitale. Un passeggio, lo ripetiamo, che, se sincero, potrebbe dar luogo ad una gestione più virtuosa, attenta, controllata della grandi opportunità offerte dalle straordinarie scoperte scientifiche degli ultimi anni: dalla gestione dei Big Data a fini sociali, all’utilizzo dei prodotti nati dalla Intelligenza Artificiale non per causare soltanto disoccupazione ma per creare davvero nuove opportunità di lavoro.

Dall’altro lato, come ha detto e scritto Andrew James Taggart, cultore della filosofia pratica (practical philosophy) intervistato dal Corriere della Sera, ” in un mondo dominato dalla tecnologia dobbiamo imparare a chiederci: ma tutto ciò è positivo?”. Non devono essere i tecnici e gli esperti di tecnologia a guidare la rivoluzione industriale: loro devono fare il loro mestiere di ricercatori, innovatori e gestori della innovazione. La classe dirigente politica deve dare gli indirizzi entro i quali muoversi, individuando il perimetro del lecito e dell’illecito proprio quando il progresso ci pone davanti a delle scoperte impreviste e rivoluzionarie dei nostri comportamenti. Il successo personale ed economico – sostiene Taggart- non deve essere lo scopo ultimo delle nostre vite, come invece accade per molti manager della società digitale.

Per vivere…TUTTI… meglio non basta essere connessi, bisogna porsi come priorità una redistribuzione dei redditi più adeguata e meno elitaria, credere nella meritocrazia ma anche nella responsabilità sociale, educare le nuove generazioni che la tecnologia è uno strumento di conoscenza straordinario ma va gestito: conosciuto, apprezzato ma usato non subito.

Dobbiamo insomma darci una scossa. Uscire dalla pigrizia tecnologica in cui siamo caduti o rischiamo di cadere, riappropriandoci del nostro ruolo di essere umani pensanti e socievoli, non in mano alle macchine come dei cerebrolesi Certo intelligentemente dedicati allo sviluppo della scienza ma non per subirla o viverla come un totem intoccabile. Ma per usarla con lucidita, rigore e rispetto delle regole. Soprattutto abbiamo la responsabilità di dire dei NO, grandi e gridati alle nuove generazioni, molto piu fragili per oggettiva inesperienza, ad un utilizzo smodato e bovino delle tecnologie, si anche degli smartphone. Con il rischio di tirarci addosso musi lunghi, cattivo umore, nervosismi, incomprensioni. Non lo facciamo per noi ma per loro, perchè possano prepararsi a vivere un futuro di soggetti attivi e pensanti non di schiavi dell’ iPhone di turno.

Questo è il vero buon compleanno di Pickett all’iPhone quasi numero 8.

Comments (1)
  1. Maurizio Baiotti (reply)

    29 Giugno 2017 at 9:47

    Credo che dovrà passare molto tempo prima che questo ciclo si esaurisca e si possa ritornare ad un uso più equilibrato del mezzo.

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