Un Biden “azzoppato” dai dossier riservati, ritrovati nel suo garage privato, cerca disperatamente di uscire dall’incubo di essere finito in una situazione analoga a quella accaduta al suo odiato rivale Donald Trump: aver violato la Costituzione americana!

In questi giorni il Presidente sta cercando di spostare l’attenzione della pubblica opinione e dei media su altre questioni.

L’America “first” innanzitutto con il lancio di un piano che rievoca i più grigi momenti della storia del protezionismo statunitense.

Poi, una maggior presenza, con ulteriori forniture di armi in Ucraina per supportare Kiev nella prossima offensiva primaverile russa.

Ci sono, però, due altri punti sui quali l’amministrazione americana sta lavorando alacremente, dietro le quinte, per recuperare una posizione strategica nel grande scacchiere delle nuove geomappe mondiali.

Biden ha autorizzato l’approfondimento di due importanti dossier: un nuovo progetto strategico delle relazioni con i paesi africani e una revisione della governance del G7 per renderla più moderna ed efficiente nel contrasto con le autarchie mondiali.

Vediamo, in sintesi, che cosa è trapelato su questi due progetti negli ultimi giorni.

Le nuove relazioni con l’Africa

Le votazioni all’ONU degli ultimi 18 mesi hanno registrato un crescente abbandono di numerosi Stati africani rispetto alle posizioni americane e degli occidentali.

La Cina movimentista di Jinping ha coperto il vuoto lasciato dagli americani nel continente africano, sviluppando proprio negli ultimi anni, un grande giro di alleanze “comprate” con investimenti, prestiti, costruzione di infrastrutture, lavoro e occupazione.

Proprio nel dicembre scorso, a Washington, dopo otto anni dal primo Summit convocato da Barack Obama nel 2014, Biden ha convocato nella capitale americana una grande conferenza USA-Africa con la partecipazione di 49 tra Capi di Stato e di governo del continente.

Il vertice, durato tre giorni, era finalizzato a rilanciare una relazione sostanzialmente dimenticata, coinvolgendo di più l’Africa su temi come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare e la sanità.

Non dimentichiamoci che l’Unione Africana è entrata ufficialmente come membro permanente nel G20 e nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Nel Summit americano si è parlato di un impegno americano di 55 miliardi di dollari in tre anni per sostenere proprio l’economia dei paesi africani, la loro organizzazione sanitaria e soprattutto la loro sicurezza, militare e digitale.

Nella lista degli invitati mancavano soltanto Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea in quanto nazioni “non gradite”.

E’ emerso un dato interessante che dimostra la diversa attenzione della Cina e degli Stati Uniti rispetto al continente africano negli ultimi anni: Pechino dal 2000 a oggi ha organizzato e presieduto ben otto Summit sull’Africa, praticamente uno ogni tre anni.

L’America uno solo, come dicevamo, nel 2014.

L’Unione Europea non si è resa partecipe, nella sostanza, di alcun tipo di iniziativa di questo genere.

Si sono mosse con una certa efficienza India, Turchia, Giappone e Francia dimostrando una maggior visione prospettica rispetto alle miopi amministrazioni americane… e non solo.

I desiderata del leader africani emersi nel corso della tre giorni a Washington, si sono concentrati soprattutto su richieste di proroga o rinegoziazione del debito ingigantito dalla crisi pandemica.

Inoltre, sul fatto di avere maggiori aiuti finanziari e tecnologici per la transizione energetica e per gestire i cambiamenti climatici causati dagli egoismi dei paesi ricchi.

Infine, di avere più supporto militare per la sicurezza nazionale .

Come giustamente osservato dalla stampa internazionale, si potranno misurare i risultati del vertice in America se e in quanto Biden e la sua amministrazione sapranno rispondere a queste criticità prioritarie: (i) la cosiddetta “transizione energetica equa”. Gli africani si oppongono alle richieste dell’Occidente per una accelerazione della transizione verde che non vuole tener conto della scarsa responsabilità dell’Africa per il cambiamento climatico necessario ad arginare i disastri accaduti negli ultimi anni; (ii) in secondo luogo, l’America dovrà dare concreti messaggi in merito al rinnovo dell’African Growth end Opportunity Act (AGOA) in vigore dal 2000 e che gli africani chiedono sia almeno prorogato sino al 2025 (il trattato garantisce l’accesso senza dazi al mercato statunitense per 36 paesi africani); (iii) misure di supporto per ovviare ai disastri lasciati in molti paesi africani prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina; (iv) aiuti finanziari per arginare, da un lato, la curva dell’aumento della povertà degli abitanti del continente africano e, dall’altro, l’aumento del debito complessivo verso il sistema finanziario internazionale.

In sintesi, Biden sta provando a riannodare in maniera più sistemica le relazioni con i paesi africani – amici lasciandosi alle spalle quella combinazione di disinteresse e disimpegno che aveva caratterizzato l’amministrazione Trump.

E’ il tentativo – ha scritto Giovanni Carbone responsabile dell’ISPI per l’Africa – di espandere e puntellare la presenza africana nel “campo” delle democrazie. In buona parte del continente, Washington può ancora puntare su un certo prestigio, ma non basterà: i leader africani chiedono anche risorse e risposte concrete  sulle priorità della regione”.

La riforma del G7

Un team di specialisti sta studiando come rendere l’attuale G7, nato nel 1975 su iniziativa del Presidente francese Giscard d’Estaing, per esaminare gli effetti economici dello choc petrolifero del ’73-’74, in qualche cosa di diverso e più istituzionalizzato.

Cinquant’anni dopo, lo spirito di questo tipo di Summit è rimasto lo stesso ma oggi, il contesto mondiale, sollecita una rivisitazione del modello organizzativo per rendere più efficace ed efficiente questo tipo di incontri internazionali, allargando magari la lista dei partecipanti.

Attualmente il G7 (ricordiamolo, era un G8 ma poi la Russia si autoescluse!) si conclude di solito con una semplice dichiarazione di intenti, rilevante dal punto di vista politico e mediatico ma non dal punto di vista giuridico.

I consiglieri del Presidente americano ritengono che la nuova situazione mondiale imponga di superare la distinzione tra le problematiche dell’area atlantica e le problematiche dell’area indo-pacifica.

Da un lato quindi le questioni di competenza della Nato e, dall’altra parte, le collaborazioni esistenti con Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda.

Se l’avversario principale degli occidentali e delle democrazie è la Cina, il G7 deve essere ripensato in una formula che integri tutti insieme gli alleati degli Stati Uniti, sia quelli europei sia quelli della regione indo-pacifica.

Già nel giugno del 2021, durante il vertice dei paesi della Nato, Biden volle fissare delle nuove linee guida dell’organizzazione in una prospettiva a medio-lungo termine.

La Russia, in quel giugno del 2021, rappresentava una minaccia e la Cina rappresentava un avversario vero e proprio.

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha accelerato l’approfondimento del tema e proprio recentemente a Ramstein, in Germania, si sono radunati tutti i 30 soci della Nato più i 4 alleati tradizionali degli Stati Uniti nel Pacifico e cioè Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

Il consigliere per la sicurezza americana Jake Sullivan che ha avuto la delega da Biden di occuparsi di questo dossier, sta immaginando un nuovo strumento di governance che possa assicurare agilità e continuità di azione con una efficienza e una efficacia anche giuridica superiore all’attuale G7.

Sullivan sta pensando di trasformare l’attuale Summit in una vera e propria istituzione ufficiale internazionale.

Naturalmente, in tal caso, sarebbero necessari dei veri e propri trattati che ogni Stato partecipante dovrebbe ratificare.

Si sta pensando quindi a una qualche cosa che somiglia all’Onu, all’Ocse, a qualche altro ente governativo con sovranità internazionale.

Questa è la grande sfida che Biden mette sul tavolo degli alleati occidentali: poter contare su uno strumento che assicuri un intervento coeso ma immediato ed efficiente di tutte le democrazie del mondo nei confronti di eventuali nuovi blitz delle autarchie.

Il Grande Gioco si potrebbe quindi arricchire di un nuovo, potente ed importante, attore.

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